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27/07/2013 04:02:38

L’economista e il povero Dialogo sulla ricchezza, in riva al mare di Lilibeo. Quarta ed ultima parte


Riassunto delle parti precedenti

Un celebre politico e professore di economia, di passaggio a Marsala, incontra al Capo Boeo un povero pensionato e tra i due s’intreccia un dialogo. Il povero narra la storia di un periodo travagliato della sua vita. Racconta che un tempo egli aveva un lavoro prestigioso e molto ben pagato, una moglie bellissima e una stupenda casa. Eppure non era felice. Ma un giorno all’improvviso tutto cambiò. In poco tempo perse tutto: moglie, lavoro, casa. Povero e solo, rischiò di cadere nella disperazione. Poi, una mattina, dialogando con se stesso davanti a uno specchio, cominciò a guarire nell’anima, comprendendo che la vera ricchezza si trova al di là dello specchio in cui ci appaiono le realtà materiali della vita. Subito dopo egli trovò un nuovo lavoro, bello ma molto più modesto di quello che aveva prima, e nell’estate di quell’anno andò in vacanza a Marsala, in casa di un vecchio amico filosofo, che lo pregò di leggere in riva al mare la Lettera a Marcella dell’antico filosofo Porfirio. A questo punto del racconto, l’economista chiede al povero: «E chi era Marcella?».


 

4 – O tes physeos plutos: la ricchezza naturale

Era il tramonto, ormai. Una coppia di cormorani si dondolava sulle onde: dovevano essere le creature più felici del pianeta. Sul viso del povero passò per un istante un velo sottile di malinconia. Fu un’incertezza, forse. Il timore di un’illusione. Poi riprese il suo sorriso e lanciò al professore una sfida: «Guardi il sole: tra poco scomparirà dietro la montagna di Marettimo. Siete ben sicuro di volermi ancora ascoltare? Non vi converrà tornare ai vostri impegni mondani, prima che scenda la notte? Vi metto in guardia: anch’io amo molto raccontare, come il mio amico filosofo, e se non mi fermate potrei tenervi qui su questi scogli, anche a stomaco vuoto, fino a domani mattina!».

«Sono sicurissimo, e non penso alla cena. Voi mi state nutrendo con la vostra storia; andate avanti, vi prego. E allora, chi era Marcella?».

«Era la moglie di Porfirio. Si conobbero a Roma, dopo il ritorno del filosofo dal soggiorno lilibetano. Lui aveva passato i sessant’anni, e prima di allora non s’era mai legato a una donna. Lei era una vedova, madre di sette figli. Si sposarono per amore, per affinità elettiva, ma il loro matrimonio scatenò le ire di alcuni pretendenti delusi di Marcella. E le ragioni di quel putiferio non sono difficili da immaginare…».

«Le solite storie di denaro e di interesse, suppongo».

«La cosa non è certa, poiché non risulta in effetti che Marcella portasse con sé una dote considerevole: nella Lettera, Porfirio lo nega esplicitamente, dichiarando di essere povero come lei. E tuttavia ciò non impedì che sul suo capo si abbattesse, in sostanza, la stesso odio feroce di cui era stato vittima quasi un secolo e mezzo prima Apuleio, l’autore delle meravigliose Metamorfosi, quando aveva sposato la ricca vedova Pudentilla ed era finito sotto processo, per l’accusa di averla sedotta con le arti magiche».

«Mai come in questi casi gli esseri umani si trasformano in belve fameliche, capaci di tutto... e anche la storia di Porfirio andò a finire in tribunale?».

«No, ma in compenso egli patì, come dice nella Lettera, una serie incredibile di oltraggi, di insidie e di pericoli mortali. Dieci mesi dopo le nozze accadde però un fatto imprevisto: per una causa non ben precisata, ma forse per difendere le ragioni dei pagani contro il dilagare della fede cristiana, Porfirio dovette lasciare Roma e partire per una lunga missione in Grecia, o forse nella sua terra natale. Marcella si rattristò per il distacco, e qualche tempo dopo lui le scrisse quella lettera, con lo scopo di rasserenarla rammentandole i princípi della retta filosofia».

«Curiosi intrecci e giravolte dei destini umani: voi ora mi parlate di un libro che leggeste anni fa in questo stesso luogo e che fu scritto all’altro capo del Mediterraneo, diciassette secoli fa, da un uomo che concepì proprio qui le idee che avrebbe enunciato in quello stesso libro!».

«Anche questo fa pensare che tempo e spazio siano realtà illusorie, e che noi stiamo vivendo in un sogno di Dio. Le nostre stesse identità sono parte del sogno: io, voi, Porfirio, Marcella, Probo, Apuleio, il mio amico filosofo… forse siamo tutti un’unica mente e un solo essere umano dalle vite infinite. Come quel raggio di sole che, pur essendo uno, si riflette ora in miriadi di scintille nella scia abbagliante che solca il mare fino all’orizzonte. Siamo tutti qui insieme, su questi scogli, i vivi e i morti, a contemplare le onde e l’isola lontana, scheggia di luce spirituale che riverbera sulla nostra potenza intellettiva. Scusate se divago, professore, ma in questo istante un ricordo mi ha accarezzato l’anima, come dice quella vecchia canzone… Era un’estate luminosa di tanti anni fa, erano giorni colmi di grazia divina. Un’amica, una compagna d’università, era in vacanza con me qui in Sicilia. Una mattina andammo a visitare il tempio di Segesta, e poi a pranzare in un ristorante all’aperto in riva al mare, a due passi da un promontorio formato da una montagna imponente e solitaria, una cattedrale di aspra roccia calcarea ossidata da millenni di aria salina e di sole violento. Dopo esserci seduti al tavolo, notammo con stupore che sul pavimento, proprio sotto i nostri piedi, era dipinta una rosa dei venti. Fummo presi entrambi da un senso di felicità inspiegabile. Quelle frecce protese verso i punti cardinali ci apparvero subito come enigmi tracciati sulla mappa del nostro destino. Parlammo dell’importanza che hanno le direzioni nella vita: sapersi orientare è il segreto che fa la differenza tra vivere e morire. E una volta scelta una di quelle frecce, non c’è più possibilità di ritorno per nessuno di noi. Si è costretti a procedere su quella strada fino al giorno in cui sarà necessaria una nuova scelta, e così via fino al nostro ultimo respiro».

«È come negli scacchi: viene sempre il momento in cui si deve compiere la mossa decisiva. Noi economisti lo sappiamo bene; le tecniche finanziarie si basano su una combinazione di logica matematica e di gioco d’azzardo».

«Eppure c’è di più».

«Che cosa intendete dire?».

«Vedete, quando arrivammo all’idea dell’orientamento, la mia amica mutò espressione, divenne pensosa e quasi sgomenta, poi mi rivolse queste domande che non ho mai dimenticato: “Ma cosa ci può aiutare a scegliere la giusta direzione? Qual è la freccia che stabilisce il ruolo e il valore di tutte le altre frecce, quella che merita il nome di Verità?”. Voi sapreste rispondere a questa domanda, professore?».

«Io posso solo dire che il criterio fondante dell’economia è la ricerca pragmatica di tutti i mezzi legali che possono favorire la crescita della produzione e del capitale pubblico e privato».

«Il fine economico è dunque quello di ottenere beni e denaro».

«Esattamente».

«E a quale scopo?».

«Per garantire a tutti una vita piacevole, dignitosa e libera dalle preoccupazioni materiali».

«Ottima cosa, professore. Ma se questo fosse non un criterio, ma il criterio assoluto della verità economica, non vi pare che l’umanità si esporrebbe al più grave dei rischi, come di fatto sta avvenendo?».

«Non vi capisco. Quale rischio può esservi nell’aspirare al benessere, alla ricchezza per tutti?».

«L’umanità è fatta di individui, di persone. Nel destino di ciascuno si riflette il destino di tutti, e se uno solo può cadere, anche l’intera umanità può precipitare. Vi ho raccontato la mia storia: ecco come una persona può crollare, quando sull’orizzonte dei suoi valori non si staglia l’isola sacra di una verità superiore. Quella verità è la freccia invisibile della rosa dei venti. La freccia che la mia amica cercava ansiosamente, perché non la vedeva tra quelle dipinte sul pavimento del ristorante. Voi ricordate Søren Kierkegaard?».

«Un nome che affiora incerto dalle memorie liceali».

«Kierkegaard ha scritto che le preoccupazioni materiali sono indispensabili perché non permettono che l’uomo inganni se stesso».

«Pensiero condivisibile. Ma facilmente interpretabile come supporto morale di un nuovo pauperismo medievale. L’economia moderna si fonda sul sogno di una ricchezza universale, di un benessere che liberi tutti dall’ossessione delle necessità primarie».

«Giustissimo: quell’ossessione è davvero una cosa intollerabile. Ma a cosa mira quel sogno di ricchezza universale, se diamo per scontato che si debba superare per sempre quell’antico problema? Mira forse ad accrescere illimitatamente la quantità dei bisogni non essenziali, e la ricchezza materiale di tutti? Se questo è lo scopo, allora vi chiedo: è forse felice la vita degli uccelli rinchiusi in una magnifica voliera rifornita ogni giorno di cibo e di acqua? O non è più felice la rondine che senza posa va in caccia degli insetti per nutrire se stessa e i suoi piccoli, volando liberamente per i cieli? La rondine è felice perché ogni sera, tornando a riposare nel suo nido, è consapevole di avere raggiunto lo scopo naturale della sua esistenza, e dunque è perfettamente contenta, e non inganna mai se stessa. Come dice quel verso di Khalil Gibràn: “Oh, magari foss’io libero come te, e contento e soddisfatto!”. Seguitemi ancora, vi prego. Kierkegaard non condanna le ricchezze materiali in quanto tali, non condanna nemmeno i piaceri della vita, ma afferma con passione che deve esserci, e che c’è, una verità superiore che serve da fondamento a tutte le altre verità, un criterio assoluto di orientamento, al di fuori del quale ogni verità contingente, ogni finalità della nostra esistenza, ogni bene materiale, si dissolvono e si annientano come schiuma, sogno, vapore. Il filosofo dice queste precise parole: “Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?”».

«Ammettiamo pure che si debba tenere presente questa coscienza eterna, o questa verità superiore, ma in che modo essa potrebbe influire sulle scelte dell’economia? Anch’io sono un credente, vado in chiesa alla domenica e prego Dio. A volte gli chiedo anche di aiutarmi a fare le cose giuste, ma tutto ciò è solo, come dire, un mio sentimento privato, che non modifica nemmeno di un millimetro o di un grammo la realtà oggettiva delle cose, le dinamiche dei mercati finanziari, i fattori di produzione, di concorrenza e di successo delle aziende, i fenomeni grandiosi e quasi incontrollabili della globalizzazione economica».

«Come vi si può dare torto, professore? Perdonatemi l’incongruo paragone, ma svolgendo la vostra osservazione fino alle estreme conseguenze potremmo anche citare l’esempio dei più grandi criminali mafiosi, che qui in Sicilia, come ben sapete, hanno sempre ostentato una fedele devozione verso la religione cattolica».

L’economista aggrottò le ciglia, e per la prima volta girò il suo sguardo verso il marciapiede del lungomare, dove l’autista lo aspettava passeggiando su e giù nervosamente.

«Ma questo», riprese il povero, «è un discorso che ci porterebbe assai lontano! Sapete, nel 1310, in una piazza di Parigi, una santa donna fu bruciata viva per ordine dell’Inquisitore perché aveva scritto in un libro che “la verità del credere consiste nell’essere quello che si crede”. Era una mistica, si chiamava Margherita Porete. La sua intelligenza spirituale era straordinaria, la sua fede era perfettamente ortodossa, ma le autorità ecclesiastiche non tollerarono quella sua ovvia e innocentissima affermazione di coerenza morale; eppure, il pretendere la pura e semplice concordanza tra l’essere e il credere, non era stato forse lo stesso motivo che aveva condotto Gesù Cristo sulla via della croce? Un motivo che nell’eterna logica del potere equivale al peggiore dei reati, a quanto pare».

«Andate avanti, vorrei sapere che cosa scopriste leggendo la lettera di Porfirio».

«Le parole del filosofo sembrano lanciarsi subito verso il cielo come a rubarne la luce, per poi ricadere sulla terra a rischiarare di vividi lampi i vizi e le virtù della nostra vita mortale. Ed ecco, subito fui abbagliato da una di quelle folgori. Dice Porfirio: “Chi ama le ricchezze è necessariamente ingiusto”. Restai per un po’ col fiato sospeso dopo aver letto e riletto quella frase lapidaria. Ciò che mi sconvolse fu l’idea che l’ingiustizia sia una conseguenza necessaria dell’amore per le ricchezze. Pensai allora ai miliardi di esseri umani che popolano questo mondo, alla ricchezza inaudita dei pochi e alla disperata fame di denaro delle moltitudini ridotte all’indigenza o a una condizione di precaria sopravvivenza. Pensai all’inarrestabilità di quel folle precipitare nell’abisso dell’ingiustizia, e con la chiarezza di una luce aurorale mi apparve la verità di ciò che Porfirio affermava: la causa di tutto è quell’amore perverso, ed è quella la vera radice del male. Una radice forse inestirpabile, dal momento che costituisce l’unica fede indiscussa e fanaticamente osservata da tutto il genere umano».

«Sconsolante prospettiva, dunque. Ed è ovvio che sia così! Nessun imperativo etico è stato mai in grado di fornire una risposta positiva ai problemi e alle dinamiche dell’economia. Nessun profeta è mai riuscito a sradicare quella passione dal cuore di un popolo dalla “dura cervice”, come dice la Bibbia».

«Questo è vero. Dice un antico commentario ebraico, a proposito del popolo che intrecciava danze intorno al Vitello d’oro, che: “Quando c’è da bere e da mangiare, l’Arciladrone, cioè Satana, fa le capriole”. L’idolatria si presenta sempre con un volto festoso. Ed è ben difficile per un essere umano rifiutare l’invito a una festa».

«Già… e mi sembra allora di capire che Porfirio, pur essendo un pagano, sul tema della ricchezza non professasse un’utopia molto diversa da quella dei cristiani della sua epoca. Voi sapete bene che il cristianesimo delle origini predicava la negazione radicale del mondo: i suoi ideali erano l’ascetismo e la povertà».

«Sì, ma il suo fondamento era l’amore del prossimo, perché in ogni persona, in ogni individuo in carne e ossa si riflette la gloria del volto di Dio. Ed è quindi un principio umano, o divino-umano se volete, ma non certamente disumano. Se ben ci pensate, l’ideale ascetico dei cristiani, nonostante le follie delle loro correnti più radicali, non è mai stato nella sua essenza un ideale di morte. Mortificare il corpo non significa ucciderlo: significa solo non permettere che le sue tendenze prendano il sopravvento sulla vita dello spirito, perché solo la vita dello spirito distingue l’uomo dalle bestie. Lodando i gigli del campo per la loro povera bellezza, e affermandone la superiorità sulla magnificenza delle vesti di re Salomone, Gesù ne esaltava la vita nel suo aspetto naturale. Esaltava dunque la natura, come Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature. E la vita, la natura, hanno bisogno di succhi, di alimenti, di abiti esteriori e di ricchezza materiale per esistere e per potersi perpetuare. Ma quella ricchezza deve essere appunto una ricchezza naturale, una ricchezza che non oltrepassa i limiti fissati dalle leggi e dagli equilibri della natura. Perfino il severissimo Girolamo Savonarola non predicò mai con accenti di morte: scrisse un libro per esaltare la semplicità della vita cristiana, e con quei due termini, “semplicità” e “vita”, volle chiaramente dire che il cristiano non deve odiare la vita, e nemmeno deve odiare la ricchezza in quanto tale, ma deve assolutamente essere povero nello spirito, liberarsi dall’amore idolatrico per le ricchezze, vivendo nel decoro ma anche nella concreta rinuncia a tutti i beni superflui. Anche lui, come Margherita Porete, non fece altro che ripetere con chiarezza la verità essenziale dell’insegnamento di Cristo: “essere quello che si crede”, ed è per questo che fu bruciato vivo come lei su una piazza, per ordine del potere ecclesiastico».

«Ecco il vantaggio di essere pagani, allora: non credo che Porfirio abbia mai rischiato di finire sul rogo», disse l’economista sorridendo.

«Geniale osservazione, professore! E pensare quanta fatica inutile dovette profondere il marito di Marcella per combattere contro quei primi cristiani così fanatici, quando in realtà, stringi stringi, la vera essenza delle sue idee non era affatto diversa da quella annunciata dal Cristo. Lo stesso Agostino lo avrebbe ammesso, nel secolo successivo, dichiarando nel trattato Sulla Città di Dio la sua profonda concordanza con il pensiero mistico di Plotino e dei suoi allievi. E questo risulta poi ben chiaro anche dal discorso che Porfirio svolge nella sua lettera, proprio sul tema della ricchezza».

«Eccoci al punto…».

«Sì, eccoci al punto: perché, poco dopo avere affermato che chi ama la ricchezza è necessariamente ingiusto, Porfirio delinea con tratti concisi e vigorosi la sua concezione della “ricchezza naturale”».

«Interessante, anche se il termine non fa che ricordarmi l’assurda teoria economica dei fisiocratici, i quali pretendevano che l’unica vera ricchezza fosse quella prodotta dall’agricoltura».

«Nulla di più lontano da una sciocchezza di questo genere. E ve lo confermerò con le parole stesse di Porfirio. Così lui dice a Marcella: “La ricchezza secondo natura è definita giustamente filosofica ed è facilmente acquisibile; la ricchezza secondo le vane opinioni umane è indefinita e difficile da conquistare. Perciò chi segue la natura e non le vane opinioni, in tutte le cose basta a se stesso: ché in ciò che è sufficiente per natura qualsiasi possesso è ricchezza bastante, mentre per i desideri illimitati anche la più grande ricchezza è povertà. Di rado si trova un uomo povero di fronte ai veri fini della natura, e ricco di fronte alle vane opinioni. Nessuno stolto si accontenta delle cose che ha, anzi si affligge per quelle che non ha. Come quelli che sono febbricitanti per qualche malattia hanno sete di continuo e desiderano le cose più contrastanti, così i malati nell’anima hanno continuamente mille bisogni e per la loro avidità cadono in molteplici desideri. Perciò i filosofi dicono che nulla è tanto necessario quanto conoscere bene ciò che non è necessario, che il bastare a se stessi è la più grande ricchezza e che il non avere bisogno di nulla è cosa divina. Meglio sarebbe per te giacere con animo sereno su un letto umilissimo piuttosto che vivere irrequieta su un letto dorato o davanti a una mensa sontuosa. Con selvaggia fatica accresciamo il mucchio delle ricchezze, e intanto la vita diventa infelice”».

«Ma in pratica, cosa significa questo dal punto di vista strettamente economico?».

«Significa che il fine dell’economia deve essere quello di creare una ricchezza che soddisfi pienamente i bisogni naturali dell’uomo, ma senza oltrepassarli in alcun modo».

 

Massimo Jevolella – www.massimojevolella.it  

Fine della parte 4. Tutti i diritti sono riservati a norma di legge, e appartengono all’Autore. Nessuna parte di questo scritto può essere riprodotta in alcun modo senza l’autorizzazione scritta di Massimo Jevolella.

Nota: Con questa quarta parte il racconto dell’economista e del povero si conclude, ma solo provvisoriamente. I lettori di “Marsala.it” verranno informati a tempo debito sui tempi e sui modi della eventuale prosecuzione della storia.