Non è un caso, difatti, che Gesù rivolga quasi sempre le parabole ad un uditorio specifico: sulla scena, solitamente, sono presenti le persone comuni, donne e uomini semplici, artigiani e contadine della Galilea; i discepoli e le discepole, anch’essi, per la maggior parte, provenienti da un contesto rurale ; e poi, immancabili, i custodi della Torah, uomini afferrati come nessun altro alla validità perenne e spacciata per volontà divina delle convenzioni religiose. Le parabole sono dirette a tutti, in linea di principio: ma il loro obiettivo polemico, l’uditorio che esse intendono sollecitare e deliberatamente infastidire, è rappresentato dai guardiani delle tradizioni. A costoro si riferisce il testo quando incomincia con il dire: «Diceva per loro una parabola». Loro sono proprio i dottori della legge, poiché come codice inflessibile e inalterabile concepiscono quella Torah che invece Gesù, in questo fedele allo spirito originario delle scritture ebraiche, interpreta come fedeltà creativa ad un insegnamento che interpella ciascuno in modo sempre nuovo e personale. Qui risiede la radice dello scontro: nel significato che si attribuisce alla fede e a quei testi che, a seconda dei punti di vista, la legittimano oppure la sollecitano. Insomma: si tratta di capire se le scritture rappresentano un invito alla ricerca o, piuttosto, una prigione dello spirito; se esse servono a coltivare l’intelligenza e la libertà o ad inculcare l’obbedienza e il senso d’inadeguatezza. Gesù si scontra con un atteggiamento che rende Dio distante dalle donne e dagli uomini, sino a trasformarlo in giudice severo, al quale si obbedisce per timore. Alla base di questo atteggiamento di intimidazione non sta la Torah, ma la sua rigida codificazione, il tentativo di identificarla con una tradizione che la imprigiona, sino a fare di un insegnamento da accogliere una legge da non trasgredire.
Come spesso ci accade di constatare accostando i testi biblici in generale e le parabole di Gesù in particolare, il tema è tutt’altro che inattuale: basti pensare alle innumerevoli realtà fondamentaliste che ancora oggi riducono la fede ad un rigido codice etico (che, sia detto per inciso, i pastori-despoti di queste chiese puntualmente non osservano) o, in alternativa, al cattolicesimo romano, che ancora vaneggia di depositum fidei quando fa riferimento alla propria (va da sé, indiscutibilmente valida) tradizione.
Il problema, in sostanza, consiste nell’identificazione tra la mobilità costante e come noi curiosa ed inquieta della fede e il suo inevitabilmente imperfetto tentativo di traduzione che chiamiamo tradizione. Ma, come è noto, ogni tradizione, mentre traduce, tradisce: motivo per cui è bene mantenere tra la fede e i suoi svariati tentativi di espressione, una distanza indispensabile che metta al riparo dalla costante tentazione dell’identità.
Come di consueto, anche la realtà alla quale apparteniamo non è estranea a questo processo: sappiamo benissimo, infatti, che il protestantesimo storico, alla stregua di tutte le confessioni cristiane, possiede i suoi miti ed i suoi punti inamovibili. Le parabole di Gesù, però, così come la fede di cui esse sono narrazione e non definizione, vengono proprio a far vacillare ciò che riteniamo stabile e assodato: quella tradizione che anche noi, come gli altri, siamo propensi a ribadire assai più che a ridiscutere.
Che cosa narra Gesù nella parabola che abbiamo ascoltata? Proprio qualcosa che ha a che vedere con il rapporto tra fede e tradizione: ma, anziché utilizzare complesse argomentazioni teologiche, Gesù fa ricorso a due immagini efficaci e suggestive, tratte dalla vita quotidiana.
La prima è rappresentata da un pezzo di stoffa nuova cucito su un abito vecchio: il rischio, dice significativamente Gesù, è che si strappino entrambi, vestito e rattoppo. Insomma: la novità non può essere utilizzata come un rammendo, perché anche la toppa migliore, dopo qualche tempo, non tiene più. Aggiunge inoltre Gesù: «La pezza nuova non si adatta al vecchio». I tentativi, spesso patetici, di «adattamento» o, come si espresse il Vaticano II, emblema di quella prudenza cattolica che governa ogni timido e spesso puramente formale abbozzo di cambiamento, di «aggiornamento», rappresentano il modo migliore per vaccinarsi dal terribile e sempre incombente virus della novità. È il classico discorso de: «Le comunità non sono ancora pronte», lampante esempio di paternalismo iperprotettivo da cui, una volta ancora, le nostre stesse chiese sono tutt’altro che esenti. È il terrore dello strappo, l’invito nemmeno troppo tacito a procedere non unitamente, come spesso vuol far credere, ma massivamente, come un gregge che, in maniera del tutto evidente, è considerato dai suoi pastori-padroni incapace di prendere decisioni meditate e motivate. Anziché incentivare la capacità di riflessione dei propri membri al fine di creare consapevolezza in luogo di obbedienza, le chiese attente a salvaguardare, prima di ogni cosa, la tradizione, mantengono i fedeli in uno stato che sta a metà tra l’ossequio e l’infantilità, in cui nulla deve essere messo in discussione. Ma perseverando in questo atteggiamento di timore preventivo nei confronti di ogni novità, alla fine a subire lo squarcio più profondo è proprio quella tradizione che si vorrebbe preservare intatta e che, mentre tutto intorno a lei cambia, viene mantenuta in vita da continui rabberci. La logica del rattoppo, così, naufraga miseramente.
Lo stesso vale per la seconda immagine utilizzata da Gesù: questa volta risalta l’aspetto dirompente della novità, che fa letteralmente scoppiare i presunti contenitori entro cui la si vuole spesso confinare. Il cambiamento, in definitiva, deve investire tutto il sistema: in questo caso, la rigida interpretazione della tradizione e i depositari (nonché, naturalmente, beneficiari) di questa fede certa perché, in verità, imbalsamata.
Ma, a questo proposito, c’è un problema: riguarda un atteggiamento psicologico, un pregiudizio così diffuso e radicato da risultare, spesso, insormontabile. Gesù lo esprime nell’ultima frase, riportata soltanto nella versione lucana di questa parabola: «Il vecchio è migliore». In realtà, è soltanto più sperimentato e, quindi, più rassicurante. Ma anche il vecchio, prima di diventare tale, deve esser stato percepito, inizialmente, come nuovo: poi l’abitudine ci vaccina contro questo pensiero ovvio ma sconveniente. Il fatto è che la novità va osata: e, possibilmente, va osata prima che diventi essa stessa un fatto scontato. Una volta, infatti, che la novità si afferma e riceve l’approvazione del senso comune, essa non ha più alcun valore. Purtroppo, ancora oggi, le chiese danno assai più retta e (quel che è peggio) più valore al senso comune che alla novità. Ma se vogliamo evitare che lo squarcio diventi talmente profondo da non potervi più porre alcun rammendo, allora è meglio che torniamo a comprendere e ad annunciare l’evangelo come messaggio di novità scomode, che ci fa dono di una fede adulta, capace di riscoprirsi mettendo in discussione quelle tradizioni che, così spesso, le impediscono di fiorire in libertà.
Domenica 14 Luglio 2013 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com