Si ferma. Quel giorno del 1992 era un sabato, stavo per andare a giocare a calcetto. Avevo quindici anni e le scarpe nuove. Per un ragazzino non c’è cosa più figa che andare a calcetto con le scarpe nuove: i piedi ti fanno un male da morire, ma vuoi mettere l’invidia degli amici.... Le mie erano nere e gialle, enormi, sembrava che avessi ai piedi due calabroni.
Stavo per uscire. Mi arrivò dalla televisione accesa in cucina la notizia: un incidente in autostrada, forse è coinvolto Falcone. Non è un incidente, è una bomba. Falcone è vivo. Falcone sta morendo. Falcone è morto. Hanno ammazzato Falcone.
Io non capivo nulla di mafia e mafierie, a quella età - era anche un mio diritto, non capire - ma qualcosa già intuivo, delle cose dei grandi. Falcone lo conoscevo, lo avevo visto in televisione parecchie volte, mi stava anche antipatico, perchè vedevo che stava antipatico a tutti.
Fu però come una vertigine, quella notizia. Mi appoggiai al tavolo della cucina. Guardai mia madre. Lei guardò me e disse: “E’ meglio che non esci”. E io a giocare a pallone non ci andai. Mi restarono le scarpe nuove, ridicole, e i piedi che mi facevano male. Mamma cominciò a fare telefonate, a chiamare parenti, amici, per dare la notizia: “Hai sentito cos’è successo?”. Certo, tutti avevano sentito, tutti sapevano. Ed era un chiedere l’uno all’altro: ma tu stai bene? Per paura che potesse succedere qualcos’altro ancora, una cosa che ci avrebbe inghiottito tutti, che ci avrebbe trascinato in un buco nero senza luce.
Passo così, quel tardo pomeriggio. Io facevo via vai tra il televisore e il computer, un Ibm che era nello studio di mio padre, un pc di altri tempi, di quei tempi. Nel tempo libero mi ero creato un giornale, una cosa mia, non mi ricordo come lo avessi chiamato, e facevo delle griglie e delle prime pagine con un rudimentale programma di impaginazione. Mi ricordo che aprii il foglio di lavoro e scelsi un modello con un titolo a nove colonne - era la prima volta, non lo avevo mai provato - e scrissi: “STRAGE IN SICILIA. ASSASSINATO FALCONE”.
Guardai lo schermo e cominciai a piangere. Mi venne come una sete enorme, e una voglia di capire, di sapere. Solo che su Raiuno già non c’era più nulla. L’edizione straordinaria del tg era finita, perchè c’era comunque, alle 20 e 30, da mandare in onda la puntata finale del popolarissimo show “Scommettiamo che...”, con Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci.
Io sono nato quel sabato pomeriggio. E tanti altri con me. La lotta alla mafia, cominciò a diventare la nostra ragione di vita quotidiana. Ce lo spiegavano a scuola, facevamo le assemblee, cominciammo a organizzare cineforum e fiaccolate e lenzuolate. E poi i corsi di “educazione alla legalità”, Libera, i cortei, “Giovanni e Paolo per sempre con noi”.
La scossa di ribellione fu sincera, appassionata, coraggiosa. Durò anche tanto. La Sicilia diede una lezione di dignità a tutta l’Italia. Le nostre vite erano cambiate e noi volevamo cambiare la nostra terra. Cambiare, divenne l’imperativo.
Il 23 Maggio, per chi fa parte del composito e variegato mondo di quella che chiamano “antimafia” è un po’ come la Pasqua, ma non nel senso della resurrezione dei siciliani davanti al sacrificio di Falcone. Sono stanco di metafore evangeliche. Dico Pasqua nel senso del calendario. E’ il punto di concentrazione di molte attività, l’inizio di altre.
A Palermo arrivano le navi cariche di studenti. Ci sono le fiaccolate e i cortei. Qualche lapide da scoprire. Planano da Roma in Sicilia le più alte autorità. Comincia un’agenda di impegni che ha il suo culmine con la celebrazione della strage gemella, quella di Via D’Amelio, quando venne abbattuta anche l’altra torre della lotta alla mafia in Italia, Paolo Borsellino.
Ormai, però, è una Pasqua fredda. Triste, anche. Se nei primi anni c’era speranza che qualcosa cambiasse ora è prevalso un altro sentimento. Che non è la disillusione, perchè molte cose sono cambiate, molte battaglie sono state vinte. Non siamo disillusi, siamo disorientati. Non sappiamo più cosa fare, dove cercare.
Ricordiamo Falcone, i poliziotti della scorta, si. Ma sentiamo promesse che non vengono mai mantenute, annunci di leggi fondamentali nella lotta alla mafia (come quella sul voto di scambio, o sulla corruzione) che restano chimere. Ci dicono che ci sono svolte nelle indagini che sono pura illusione e che ti demoralizzano due volte, la prima perchè non è civile non sapere a venti anni di distanza cosa sia successo in Italia nel 1992 e nel 1993. La seconda perchè la svolta annunciata è l’ennesimo bluff.
Siamo disorientati, per questo e per altri motivi. Perchè prima sapevamo riconoscere il nostro nemico. Riina, Provenzano, Brusca e tutti gli altri. Oggi, che i boss della mafia che fu sono in carcere, vittima dell’Alzheimer oltre che del carcere duro, non abbiamo più nemici. La mafia è cambiata e si è trasformata in questa Cosa Grigia liquida e silenziosa, noi non sappiamo riconoscerla più. E non sapendola indicare, non la sappiamo lottare.
Si, la lotta alla mafia è finita. E’ stata soffocata dalla retorica e dal merchandising. Va ripensata. Partendo dai contenuti e dal linguaggio, ricostruendo tutto. Abbandonando i feticci. L’agenda rossa di Paolo Borsellino, ad esempio. Dio, ce la sogniamo la notte. Ci è sembrata di vederla, anche, in un filmato reso pubblico qualche giorno fa con le riprese dei vigili del fuoco nell’immediatezza della strage di Capaci. Ora ci hanno detto che non è un’agenda, è un parasole. E a me sembra essere in quel quadro di Magritte: “Ceci n’esta pas une pipe”. Questa non è una pipa. L’agenda è un parasole è un pezzo di cartone è un ombrellino da cocktail è il coniglio di Alice. Forse sarebbe l’ora di liberarci del complesso dell’agenda rossa di Borsellino. C’erano scritti i suoi appunti più importanti, certo, di sicuro non l’appuntamento con i suoi assassini. Così presi siamo dalla ricerca dell’agenda rossa che ci sfugge tutto il resto: il clamoroso depistaggio delle indagini, il coinvolgimento di pezzi delle istituzioni, le utlime indagini di Borsellino. Il punto morto della lotta alla mafia, oggi.
Si, liberiamoci dall’agenda rossa. E liberiamoci degli slogan, dai nomi delle vittime di mafia imparati a memoria come una litania. Non risorgono, state tranquilli, ad alta voce o ripetuti nel silenzio, non tornano, non torniamo. Liberiamoci dagli slogan: “chi ha paura muore ogni giorno”, “un giorno questa terrà sarà bellissima”, il “fresco profumo della libertà” tanto caro a Borsellino, e via dicendo....
A proposito, noi il profumo della libertà non lo conosciamo. Ci siamo illusi di averlo respirato, ma non è vero. Abbiamo solamente fatto arieggiare la stanza, prima che quell’ossido di carbonio diventasse letale. Ma non lo conosciamo, il fresco profumo della libertà. Perchè nei nostri piccoli e grandi compromessi, liberi non siamo, e non vogliamo anche esserlo. Ci piace l’antimafia da parata, non quella che ci invita a prendere per mano la nostra vita e a rivoltarla come un calzino.
C’è una persona che potrebbe spiegarcelo cos’è, davvero, il “fresco profumo della libertà”, che fu caro a Paolo Borsellino. Si chiama Giuseppe Gulotta. La sua storia è raccontata in un libro scritto per Chiarelettere con Nicola Biondo. E’ stato accusato, ingiustamente, della strage di Alcamo Marina, quella in cui, il 27 gennaio 1976, vennero uccisi due giovanissimi carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Gulotta, che non c’entrava nulla, fu scelto come capro espiatorio. Aveva 19 anni. E’ stato dichiarato innocente dopo 22 anni di carcere e 36 anni di calvario giudiziario. La sua storia interroga molta parte dell’antimafia di questo Paese. Perchè tra gli uomini che lo torturarono, che lo costrinsero a firmare una dichiarazione falsa, che si girarono dall’altra parte di fronte alla sua richiesta di aiuto, ci sono nomi che hanno fatto carriera nell’antimafia. E perchè ad Alcamo Marina si intrecciano tanti misteri - ancora oggi non risolti - del nostro Paese. Ecco, se vogliamo capire cos’è il fresco profumo della libertà dobbiamo chiederlo a lui, al risorto Beppe Gulotta. Lui si che lo sa. Altrimenti continuiamo a fare l’antimafia che ha in bocca i nomi dei morti, ma che si dimentica i vivi.
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Forse per capire l’Italia, la mafia, l’antimafia e tutto - No, non per capire, per tentare di capire, perchè capire non si può, ma avvicinarsi si -. Forse, allora, per cercare un filo, devo tornare a quella sera di sabato 23 Maggio 1992. Io che piango davanti alla tv - a casa mia non si è cenato, quella sera, lo stomaco di tutti era chiuso - e Fabrizio Frizzi in smoking che spunta e dice: siamo qua, in questo programma di scherzi e lazzi, è l’ultima puntata, non volevamo andare in onda ma alla fine abbiamo deciso che andiamo in onda lo stesso. Prima, un minuto di silenzio per Falcone. Applauso del pubblico, tutti in piedi al Teatro delle Vittorie. Stacco musicale dell’orchestra del maestro Mazza. Frizzi che rientra sull palco dello studio (perchè prima non era sul palco, forse non era neanche in quello studio, e forse non era sullo schermo, Frizzi, era nella vita vera, spiacevole parentesi della vita televisiva) e come se niente fosse, elaborato già il lutto, palleggia con un pallone da basket e dà inizio alla trasmissione. Ecco, noi nel corso di questi anni, abbiamo fatto, coi nostri tempi, la stessa cosa: prima lo spavento, l’orrore. Poi la posa, sull’attenti. Il caloroso saluto alle vittime. Infine, seduti. C’è stato lo stacchetto. Adesso palleggiamo.