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25/04/2013 05:33:05

Il difficile esercizio della critica informata

La fede cristiana, difatti, non coincide con il patrimonio liturgico e dogmatico di una tradizione specifica, sia essa quella cattolico-romana o quella riformata (di cui la chiesa valdese costituisce parte integrante, non rappresentando affatto, come insinua il nostro lettore, «un’appendice del calvinismo»): cristiane, difatti, possono legittimamente proclamarsi tutte le chiese che si riconoscono nell’annuncio e nella pratica dell’evangelo di Gesù di Nazareth. Le diverse declinazioni di tale annuncio e gli aspetti afferenti all’organizzazione istituzionale delle distinte realtà ecclesiastiche determinano quella pluralità di sensibilità teologiche che le componenti più intransigenti, non ultima quella rappresentata dal cattolicesimo integralista, si ostinano a negare mediante un incessante appello all’uniformità, indebitamente confusa con l’unità. Infine, l’autore dell’articolo, il teologo valdese Paolo Ricca, è uno dei più insigni rappresentanti del movimento ecumenico, uomo di straordinario equilibrio e di riconosciuta preparazione: è sempre opportuno conoscere l’autore di cui si intende mettere in questione non le tesi (giacché questo, almeno in ambito protestante, è sempre possibile) ma – almeno così mi è parso – l’autorevolezza.

Ancor più opportuno è conoscere la storia alla quale si fa, talvolta maldestramente, riferimento: è vero che la chiesa valdese fu dichiarata eretica (cosa che avvenne durante il IV Concilio Lateranense, nel 1215) e, pertanto, perseguibile secondo i (violenti e in alcun modo giustificabili) metodi inquisitoriali; ed è vero che tale persecuzione si protrasse nei secoli, annoverando episodi esecrabili quale quello citato dal nostro lettore, il massacro dei valdesi di Guardia Piemontese, avvenuto nel giugno del 1561. Certo queste cose non fanno onore al passato del cristianesimo: al contrario, rappresentano il più profondo tradimento dell’evangelo come messaggio di pace e di fratellanza. In questi abissi della storia cristiana, l’appartenenza all’eresia (dichiarata tale da un’autoproclamatasi ortodossia che ha a più riprese violentato la dignità umana e per ciò stesso l’evangelo) è certo più motivo di onore e di fedeltà che non di vergogna. Vergogna è quanto, piuttosto, dovrebbero provare gli inquisitori: ma è vano sperarlo. L’auspicio è che almeno uno sguardo storico retrospettivo consenta di acquisire una prospettiva critica su vicende così incresciose: ma il nostro lettore sembra ancora concedere assai più credito all’inquisizione e ai suoi metodi piuttosto che all’eresia (termine che proviene dal greco airesis e che significa, propriamente, scelta: di qui la sua estrema dignità) e alle motivazioni, sovente plausibili quando non addirittura nobili, che la determinano.

Che poi il nostro lettore sia persuaso di rappresentare la frangia progressista del cattolicesimo romano è cosa che suscita in me sconcerto e ilarità: mi chiedo, difatti, cosa debbano pensare allora i conservatori. Fortunatamente continuo ad intrattenere rapporti improntati al confronto, onesto e serrato, con sorelle e fratelli che si riconoscono nel cattolicesimo di frontiera: e, posso assicurarlo al nostro lettore, si tratta di interlocutori ed interlocutrici di tutt’altro tipo.

Infine, non vedo altra via se non quella del dialogo per «riscoprire la fede cristiana», cosa che sembrerebbe stare molto a cuore al nostro lettore: mi chiedo, soltanto, come pretenda di compiere questo percorso in solitudine, dacché al dialogo con chi persegue, a suo dire, «metodi diversi», egli intende sottrarsi. Nel solipsismo tipico dei fideismi granitici non si riscopre la fede, ci si limita a ribadire ossessivamente convincimenti inamovibili e codificati. Per quel che mi riguarda, preferisco percorrere la via dell’interrogazione incessante: offre meno certezze, ma consente –  lei sola –  il cambiamento.

Alessandro Esposito – pastore valdese a Trapani e Marsala

 



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