Lo ha fatto nella patria del bandito Giuliano trascinando agli arresti il sindaco Giacomo Tinervia. Lo ha fatto nella vicina Giardinello,rimettendo in riga un consigliere comunale che pretendeva di fare di testa sua.E lo ha fatto a Trapani governando le opere connesse a un grande evento come la Louis Vuitton Cup, fortemente volute da Tonino D’Alì, l’ex sottosegretario che neppure un processo per mafia, ha convinto il Pdl a non ricandidare. Quelle chesembrano mafiobeghe di paese, come accaduto a Montelepre, dove il capobastonerimprovera il sindaco che si è incassato, senza dividerla, una tangente perun’opera pubblica, non sono episodi minimi e circoscritti. Appartengono al medesimo scenario nel quale si collocano gli appalti trapanesi per i grandi eventi e la rappresentanza politica degli interessi d iCosa nostra, ben sintetizzata dall’imprenditore e boss, uomo di Messina Denaro,che in carcere rassicura sulla promessa che gli avrebbe fatto D’Alì: gli appalti andranno al loro gruppo e non a un altro. Ne discende che potranno farli a modo loro: potranno imbrogliare sul cemento e sui carotaggi, dichiarare attrezzature mai possedute e allestire un’associazione temporanea di imprese allo scopo di ottenere le certificazioni necessarie per darsi una facciata di competenza. I nomi blasonati serviranno da vetrina, saranno la maschera rispettabile dietro la quale celare i soliti noti che faranno tutto e lo faranno male. Pur nella diversità delle poste in gioco, degli affari in corso, della consistenza delle cifre in ballo, il perno su cui ruotano entrambe le ricostruzioni giudiziarie rimane l’imprescindibilità dell’organizzazione mafiosa nel governo della spesa pubblica che si va sempre più assottigliando.
Con l’appannarsi di un ruolo egemone nel traffico internazionale degli stupefacenti, Cosa nostra si nutre ormai quasie sclusivamente di appalti fino a diventare però, in un pericoloso ritorno al passato, il vero e unico motore degli investimenti. Sua la necessità di opere per mettere in ciclo l’economia diretta e dell’indotto di mafioimprese venute su dal nulla. Sua l’esigenza di controllare la filiera amministrativa, dal bando di gara all’aggiudicazione. Suo il bisogno di legittimarsi come soggetto politico,capace di catalizzare consenso sociale a più livelli. Urgenze, eventi, procedure semplificate, obbediscono alla pretesa di creare l’occasione per aprire i cordoni della borsa e di farlo, in nome della fretta, praticando parecchi sconti alle pur non rigidissime regole.
E c’è un ulteriore balzo in avanti in questo quadro che diventa sistema: la politica non sembra avere più un ruolo subalterno, per convenienza, paura o necessità. Non c’è un mafioso che dà ordini e unamministratore che esegue. L’ingranaggio nel quale sono entrambi li vede perfettamente compartecipi del medesimo disegno, c’è una identificazione assoluta tra chi decide fuori dal palazzo e chi lo fa nelle sedi istituzionali a tutti i livelli.
In un processo come questo, la mafia, dopo la lunga parentesi dell’orrore stragista, si è sempre di più politicizzata e, perconverso, la politica si è sempre di più mafiosizzata. Così, se si convocasse un nuovo tavolino, come quello per la spartizione degli appalti, intorno al quale sedevano i rappresentanti delle imprese, i fiduciari della mafia e la politica, oggi si farebbe fatica a distinguerne i ruoli.
I politici «a disposizione», pronti a fare un favore per trarne o ricambiare un vantaggio elettorale, si contano ormai sulle dita di una mano a vantaggio di quelli organici, perfettamente inseriti in una cosca e con una assoluta identificazione di scopo tra la loro funzione pubblica e quella utile all’organizzazione. Ed è perfino venuto meno quello che aveva caratterizzato il rapporto mafia politica degli anni Ottanta e Novanta: la capacità di mediare, di porsi come cuscinetto tra le esigenze collettive e quelle degli amici degli amici. Ora l’unica mediazione esercitata da questa nuova (si fa per dire) genia di politici ontologicamente mafiosi, è tra le diverse ingordigie in un tempo di crisi di risorse che è un moltiplicatore di voracità.
Quel poco che c’è va controllato rigidamente, non è possibile lasciarsi sfuggire nulla. Questione di soldi e di prestigio. Pe rquesto al sindaco che si è intascato la tangente il mafioso chiede di riconvocare l’imprenditore e dirgli di pagare ancora, di sborsare un’altra fetta di tangente, tutta appannaggio di Cosa nostra, questa volta. Vestendo insieme i panni del tangentista e dell’esattore del racket, l’amministratore pubblico opera di conseguenza. E l’imprenditore, dal canto suo, non trova per nulla curioso che all’ingresso dei due forni ci sia la stessa persona.
Enrico Bellavia