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15/03/2013 07:48:20

L’evangelo dimenticato di Gesù di Nazareth

Questo nucleo originario dell’annuncio gesuano fu poi oggetto di una rielaborazione teologica che affonda le proprie radici già nel cristianesimo delle origini, segnatamente nell’epistolario paolino prima (redatto intorno agli anni 50-60 e.v.) e nella letteratura giovannea poi (fiorita a cavallo tra il I ed il II secolo e.v.). Nei vangeli cosiddetti sinottici (Marco, Matteo e Luca), infatti, la centralità della componente etica nel messaggio di Gesù è evidente: essa non è dissociata dalla confessione messianica legata alla sua persona (poiché tale confessione è comune a tutte le testimonianze neotestamentarie) ma mette in rilievo quella che opportunamente la nostra lettrice definisce come la dimensione umana di Gesù, del suo messaggio e, prima ancora, dell’immagine stessa di Dio che tale messaggio riflette. L’umanità, in effetti, costituisce il cuore dell’evangelo, l’aspetto sempre attuale, perché perennemente incompiuto, dell’annuncio di Gesù: essere umani, difatti, non è una condizione ma un compito, al quale il messaggio del nazareno ha sempre invitato ad indirizzare lo sguardo e a conformare l’agire. Nella predicazione di Gesù la dimensione nevralgica, costitutiva, è quella dell’ortoprassi, di un atteggiamento attraverso cui sia possibile realizzare i contenuti di un annuncio che, se rimane verbale, perde la sua concretezza, il suo carattere performativo, ovverosia la sua capacità di trasformare l’ingiustizia delle relazioni umane e sociali in atto: situazione, quest’ultima, che, con tutta evidenza, è rimasta invariata nei secoli.   Questo aspetto di concretezza dell’evangelo annunciato e praticato da Gesù di Nazareth deve essere inteso a partire dalla collocazione dell’uomo e del suo messaggio in seno alla tradizione religiosa e culturale nella quale entrambi si inscrivono: quell’ebraismo riletto in chiave profetica che fece della critica all’establishment politico-religioso il proprio carattere distintivo. In ebraico, infatti, il termine davar possiede una duplice, inscindibile valenza: significa, al contempo, parola e fatto. Nella cultura ebraica, chi parla sa di agire: ecco perché un evangelo dai contenuti celesti e dal taglio dogmatico rappresenta una contraddizione in termini. È stata la predicazione ecclesiastica, a partire dalla trasformazione del cristianesimo da movimento plurale e perseguitato a religio licita dell’impero romano (status al quale assurse definitivamente attraverso l’editto di Tessalonica promulgato nel 380 e.v. dall’imperatore Teodosio), a spostare definitivamente l’accento da una predicazione di natura eminentemente etica ad un annuncio dottrinariamente unitario, disciplinato dalle (discutibili, benché de facto insindacabili) decisioni conciliari.   Sono persuaso del fatto che tornare ad insistere sulla dimensione etica ed umana del messaggio di Gesù possa rappresentare la via più feconda per un dialogo tra sensibilità distinte, che siano considerate realmente sullo stesso piano nel momento in cui, anche criticamente, si confrontano. Una teologia che parta dal presupposto, tacito ma comunque evidente, di una presunta superiorità morale o veritativa del messaggio da cui dice di prendere le mosse, di fatto si sottrae alla terrestre e diuturna fatica della ricerca di una più piena umanità, la quale, necessariamente, si fonda su quell’itineranza che fa della provvisorietà l’unico orizzonte di ogni umano approdo. Questo, difatti, fu anche l’orizzonte entro il quale si dispiegarono l’esistenza di Gesù ed il suo annuncio.     Alessandro Esposito – pastore valdese (articolo pubblicato su MicroMega il 12 marzo 2013)  



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