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22/01/2013 09:57:48

Chiavari: dopo 160 anni pace fatta tra cattolici e valdesi

Nel corso dell’Ottocento molti dei valdesi di Favale  emigrarono nelle Americhe fondando chiese e comunità, mentre dall’entroterra la loro fede si spostò sulla costa, a  Chiavari. Gli ultimi Cereghino rimasti a Favale, Teresa e Carlo, fratello e sorella, sono morti quarant’anni fa senza eredi e riposano nel piccolo e malandato cimitero valdese di località Castello. Restava quella ferita da sanare,  simboleggiata da quella lapide in chiesa. Ieri, con una decisione quasi a sorpresa, il vescovo di Chiavari Alberto  Tanasini è salito fin quassù per scoprire e benedire una nuova lapide, voluta dai parrocchiani e murata proprio sotto  quella del 1853, che prova a chiudere quella pagina antica e dolorosa. «Dove c’è stata incomprensione e sofferenza,  là ci siano riconciliazione e pace» si legge nel lungo testo che, poi, sottolinea «il particolare riguardo verso la comunità  cristiana valdese» e fa riferimento al «dialogo ecumenico» ispirato dal Concilio Vaticano II. L’occasione è  quella, solenne, della festa di San Vincenzo diacono e martire patrono di Favale, e in chiesa c’è una piccola  delegazione dei valdesi di Chiavari. «È un gesto importante - dice il delegato Carlo Lucarini - che arriva dopo un  percorso di avvicinamento tra le nostre comunità partito a settembre». A volere quell’incontro era stato il giovane  parroco di Favale, don Gianemmanuele Muratore, qui dal 2006, che ricorda: «Un’occasione di confronto e di comunità  in cui, tra l’altro, il grande teologo valdese Paolo Ricca ci ha ricordato le “cinque perle” portate dal Concilio  Vaticano II al dialogo ecumenico. E da lì è nata l’idea di un gesto concreto che potesse farci fare un passo avanti,  anche qui a Favale». Centosessant’anni fa la parabola umana dei valdesi Cereghino fu costellata di umiliazioni ed  episodi oggi impensabili che il vescovo Tanasini sceglie di non commentare. «Non sta a noi, oggi, giudicare quegli  avvenimenti lontani. La Chiesa ci chiede un gesto di incontro ed è ciò che abbiamo fatto: una mano tesa, che è già  stata stretta dall’altra parte».

Marco Raffa in “La Stampa” del 21 gennaio 2013