Secoli di teologia si sono affannati invano a fornire una definizione del Regno di Dio di cui le chiese, più che predicare l’annuncio, hanno inteso rappresentare l’anticipazione sulla terra o, quantomeno, la porta d’ingresso. Gesù, invece, non definì mai in maniera compiuta questo Regno: preferì dipingerlo, descriverlo con immagini suggestive, tratte dalla vita quotidiana. Queste narrazioni, che convenzionalmente chiamiamo parabole, prendono vita dal racconto di scene rurali: Gesù, infatti, svolse tutta la sua attività pubblica percorrendo le campagne della Galilea, incontrandone gli abitanti di cui conosceva bene la semplicità e la fatica. Mai si avventurò in complessi ed astratti discorsi teologici: Gesù modellò sempre la sua predicazione tenendo conto di quante e quanti lo ascoltavano attendendo al duro lavoro dei campi: donne e uomini ricchi di cultura, parola che non a caso viene da
colere, coltivare, benché non avessero accesso all’istruzione. Gesù li amava, era cresciuto circondato dal loro affetto e si era nutrito della loro saggezza: a questi semplici dichiarò sempre che l’evangelo era indirizzato e l’eredità del Regno promessa.
Ma che cos’è questo Regno? Ogni volta che Gesù provava a dipingerlo perché gli occhi di questi semplici potessero immaginarlo, incominciava il suo racconto con questa espressione: «Il Regno dei cieli è simile a…». Mai nelle sue parole vi fu accenno di presunzione o di esaustività: sempre la delicatezza del narratore che descrive e non definisce, preservando lo spazio sacro dell’immaginazione, assai più adatto del concetto ad esprimere il volto di Dio, la premura del suo agire e la natura del suo cuore. L’accesso a Dio è consentito soltanto alla fantasia di cui sono capaci i semplici: le teologie rimangono irrimediabilmente al di qua.
In questa parabola, che soltanto l’evangelo secondo Matteo riporta, Gesù dipinge il Regno in modo nitido e sorprendente. Incomincia, in maniera assai poetica, paragonandolo ad un uomo, un padrone di casa, che «esce insieme al mattino»: così, letteralmente, riferisce il nostro testo e non, come sovente troviamo nelle nostre traduzioni, «che esce di primo mattino». Gesù presenta quest’uomo, metafora viva di Dio, come colui che prorompe dalla notte come l’aurora e che, ai primi bagliori dell’alba, si mette in cerca di collaboratori. L’uomo in questione, infatti, non si comporta a mo’ di despota o anche solo di sovrano assoluto, come molta tradizione teologica successiva amerà dipingerlo: il racconto ci dice che, incontrate le persone che egli chiamerà a lavorare alla sua vigna, si
accorda con loro; primo, anacronistico esempio di trattativa sindacale. Il padrone della vigna non impone il prezzo, non lo stabilisce di propria iniziativa: lo concorda con quanti chiama a lavorare presso di sé. Questi, dunque, sono collaboratori e non servi: contro ogni teologia che intende ridurre le donne e gli uomini a figure irrilevanti di fronte all’agire di un Dio che qui, invece, chiama i propri interlocutori a collaborare con sé. Per Lui, assai più che per noi, gli esseri umani posseggono un valore insostituibile: a loro, e dunque a noi, egli affida la responsabilità della vigna, affinché essa non rimanga sterile ma porti frutto.
Narra poi il testo che il padrone della vigna, uscito tre ore più tardi, incontra altre persone che se ne stanno in disparte, inoperose: propone dunque loro di recarsi anch’esse presso la sua vigna.
Poiché costoro, vista l’ora, rischiavano di non essere più presi a lavorare a giornata, accettano di buon grado l’offerta fatta loro dal padrone della vigna: «Andate anche voi – dice loro – vi darò
ciò che è giusto»: intorno a quest’ultima espressione, come vedremo, nascerà la divergenza e prenderà forma il malcontento di alcuni. Qui non viene specificato e, meno ancora,
quantificato ciò che viene promesso, semplicemente, come g
iusto: si dice soltanto che verrà corrisposto, null’altro. Instancabile, il padrone della vigna esce altre tre volte: nel corso del suo ultimo giro chiama addirittura alcuni a lavorare per un’ora soltanto. Il fatto è che nessuno rifiuta la proposta: tutti quelli che vengono chiamati si recano alla vigna; ed il padrone mostrerà di apprezzare questa disponibilità niente affatto scontata.
Fattasi sera, arriva, inesorabile, il momento di fare i conti: a questo proposito il padrone della vigna dà al suo fattore, incaricato di pagare gli operai, delle disposizioni ben precise: gli dice, curiosamente, di corrispondere il salario ai lavoratori incominciando dagli ultimi. Si tratta di un dettaglio che risulterà decisivo perché, se si fosse incominciato dai primi, questi non si sarebbero resi conto della – presunta – disparità di trattamento. Invece il padrone vuole che essi assistano al suo gesto e che lo comprendano: ma sappiamo bene che le cose andranno diversamente. Avendo infatti constatato che gli ultimi arrivati avevano percepito un denaro a motivo del lavoro svolto, quanti avevano faticato tutto il giorno incominciano a pensare in cuor loro: «Ora chissà come verremo gratificati noi, che ben di più abbiamo speso energie e buttato sudore». Ma la retribuzione, sorprendentemente, è la medesima.
La mormorazione, tratto tipico di ogni essere umano che sia convinto di reclamare per il riconoscimento di una giustizia negatagli, non tarda ad affiorare: «Ma perché questa iniquità? – lamentano i lavoratori della prima ora – questo è un sopruso!». Ciò che indigna viene espresso con parole inequivocabili: «Hai reso questi ultimi
uguali a noi». Dunque, un’uguaglianza a cui si imputa arbitrarietà e che, per questo motivo, viene considerata intollerabile: «Uguali
li hai resi Tu, con questa Tua assurda trovata. Perché uguali a noi, in realtà non erano, non potevano essere».
Inutile nasconderci il fatto che questo è anche
il nostro modo di ragionare: il reclamo di quanti hanno lavorato dodici ore, difatti, ci pare ineccepibile, persino doveroso. Come accettare di essere trattati alla stessa stregua di quanti al lavoro hanno collaborato in maniera ridicola, quando già, peraltro, la calura del giorno era scemata? Vuole ricompensare questi scansafatiche con un denaro? Benissimo: ma a questo punto a noi deve di più. Quel che non sopportiamo è l’equiparazione di due fatiche incomparabili, il pari trattamento riservato a due lavori imparagonabili. Curioso: nessuno di noi pensa di essere il lavoratore dell’ultima ora. Figli di un’educazione ecclesiastica, siamo afflitti da un inguaribile complesso di superiorità, ancor più subdolo perché inconfessato e travestito di umiltà.
In ragione di ciò, rileviamo immediatamente l’ingiustizia e fatichiamo invece a scorgere quella grazia di cui tanto amiamo parlare e che così poco, invece, siamo capaci di accogliere e di accettare: figuriamoci, quindi, se sappiamo gioirne. È vero, piuttosto, il contrario: non ce ne capacitiamo, la troviamo assurda e ci indispettisce terribilmente.
Il padrone della vigna, intesi i reclami che, invero, già presagiva, compie un altro gesto molto delicato: rifiutandosi di fare un comizio o peggio, una predica o una scenata, chiama uno dei rimostranti e gli parla a tu per tu.
In questa intimità che evoca fiducia, prova a spiegargli le ragioni che stanno alla base di quella sua incompresa decisione. Chiamandolo, con infinita dolcezza, «amico», incomincia col dirgli: forse, preso dalla foga, non te ne sei nemmeno reso conto; ma guarda che io non ho commesso alcuna ingiustizia nei tuoi riguardi. Infatti, gli ricorda, io e te «ci siamo accordati per un denaro»: l’abbiamo pattuito, non ti ricordi? E non sono stato fedele alla parola data? Ti ho forse dato meno di quanto stabilito insieme questa mattina? E allora dimmi:
dove sono stato ingiusto con te?
Dopo questa introduzione ineccepibile, il padrone della vigna mette in chiaro alcune questioni e si mostra, poi, abile psicologo, passando a smascherare le vere ragioni che stanno alla base di tanta indignazione. Incomincia rammentando a chi ha protestato: «Forse dimentichi che il proprietario della vigna sono io: non mi è dato di disporre come meglio credo di ciò che è mio?». Dettaglio non certo di poco conto. Ma è subito dopo che viene formulata la domanda più forte e più drammaticamente vera: «O il tuo occhio diventa cattivo perché io sono buono?». Raggelante. In effetti il nostro sguardo si inasprisce soltanto di fronte alla bontà: è quest’ultima, in realtà, ciò che non riusciamo a tollerare. Altro che senso di giustizia: ciò che non mandiamo giù è l’immagine di un Dio misericordioso, perché troviamo che non risponda a quei criteri di giustizia che riteniamo tocchi a noi soltanto dover stabilire.
Gesù questo lo sa e, in modo assai significativo, non racconta questa parabola ai farisei o agli scribi, ma
ai suoi: sa che tra di loro, e dunque tra noi, assai più che tra i suoi avversari, fa fatica a filtrare questa immagine di Dio. E la storia della chiesa rivela il fatto che i suoi timori erano fondati. La misericordia, difatti, alberga assai raramente nei cuori di quanti, come noi, si definiscono spesso frettolosamente
credenti, prestando scarsa attenzione al volto del Dio in cui affermiamo di credere. Il Dio di Gesù, infatti, non è un Dio giusto nel senso dell’inflessibile imparzialità che i nostri animi sono inclini ad attribuirgli: è un Dio misericordioso e, pertanto, un Dio la cui giustizia è a misura della sua bontà, della sua tenerezza. In ciò soltanto Gesù desidera che noi, come suoi discepoli, assomigliamo a Dio, conformando al Suo i nostri cuori: ma perché questo avvenga dovremmo rinunciare alla presunzione di stabilire che cosa sia giusto. Ciò che invece, lo sappiamo bene, spesso amiamo stabilire per gli altri, e persino per Dio, prima ancora che per noi. Ed è per questo che, in effetti, questa parabola che Gesù ha raccontato, a ben guardare, l’ha davvero raccontata, prima che per ogni altro, proprio
per noi.
Domenica 20 Gennaio 2013 – Pastore
Alessandro Esposito - da www.chiesavaldesetrapani.com