Il brano che abbiamo ascoltato, difatti, è tutto fuorché incoraggiante: ma la fede non dovrebbe essere il luogo della consolazione facile ed illusoria, bensì lo spazio entro il quale vivere un confronto onesto con il fondo oscuro dell’esistenza e di quel cuore, in questa oscurità apparentato, che cerca di comprenderla. Qohelet infatti, in questo sforzo di onestà nei confronti di se stesso e della vita, dice espressamente di averci messo
il cuore: organo con cui l’ebraismo indaga l’esistenza e le sue insanabili contraddizioni, riuscendo ad accostare il senso o la sua tragica assenza con una profondità ed un’intensità che soltanto la partecipazione emotiva, viscerale, è capace di dischiudere ad un’intelligenza altrimenti fredda, arida. Qohelet non aspetta che il senso gli piova addosso dal cielo: indaga tutto ciò che sotto il cielo si svolge, lo fa con sentimento, con passione – e dunque con dolore – e questo senso, poi, finisce per non reperirlo: rischio che incombe inesorabile su ogni ricerca degna del nome, che non si finga tale nella pretesa di conoscere già la risposta alla propria inquietudine. Tale è lo sconforto di questo cercatore inesausto che la sua pena prorompe in un’affermazione perentoria: l’affanno di questa ricerca senza esito è definito, senza scrupoli o infingimenti, come una «occupazione malvagia che Dio ha dato ai figli d’uomo».
È interessante notare come le più accreditate traduzioni italiane della bibbia, all’apparenza più attente a preservare l’autore biblico dall’accusa di empietà piuttosto che a restituire fedelmente il testo originale, si affannano ad edulcorare quest’espressione.
La
Nuova Riveduta traduce, cautamente: «occupazione penosa» (guai a pensare e ancor più ad affermare, per di più in un testo sacro, che Dio ha affidato
ai figli d’uomo un’occupazione
malvagia); la
Bibbia di Gerusalemme, forse per ragioni di
imprimatur che, evidentemente, prevalgono sull’onestà intellettuale di eccellenti biblisti, traduce allo stesso modo; più onesta, come sempre, la
TOB, della cui traduzione in lingua italiana dall’originale francese non disponiamo a causa dell’intramontabile censura della CEI, che rende quest’espressione con: «une occupation de malheur», un’occupazione sciagurata, disgraziata.
Senza troppi giri di parole, come è nel suo stile, il Qohelet non risparmia nemmeno a Dio la sua sincerità: e perché dovrebbe, del resto? Al contrario, i pii ed eruditi traduttori di oggi, figli di una teologia che alla schiettezza ha ormai da tempo rinunciato, mostrano scandalo di fronte a quell’onestà che, immancabilmente, dicono di apprezzare: sempre, naturalmente, quando non si tramuti in quella che essi definiscono arroganza e che, invece, altro non è se non la loro imperitura allergia all’irriverenza. Qohelet, invece, che con Dio ha una relazione autentica perché, prima ancora, è onesto con se stesso al punto tale da ammettere il fallimento della sua appassionata ricerca di senso, non si fa scrupoli quando esprime la propria amarezza, la propria rabbia: mostra, in questo modo, la sua fiducia in Dio, chiamandolo in causa anche di fronte a ciò che non lo convince e, al contrario, lo avvilisce.
Nelle teologie ecclesiastiche, prigioniere di convinzioni incrollabili che mai vanno messe in questione, men che meno dall’ascolto del testo biblico che si medita e si commenta, il compito, in primis dei pastori, si capisce, è quello di fare gli avvocati di Dio, con tutti i risvolti di ipocrisia che inevitabilmente ne conseguono: per questa, però, nessuno si preoccupa e meno ancora si indigna.
Qohelet, ad ogni modo, assegna le giuste responsabilità anche a noi esseri umani e dice: questa occupazione in cui tanto ci affanniamo non è che soffio, qualcosa di effimero, inconsistente; e, più ancora, è «vento di desiderio». Molto prima di Feuerbach che, più di duemila anni dopo, parlerà di Dio come di una proiezione del desiderio dell’uomo; molto prima di Nietzsche, che lo definirà come espressione della nostra volontà di potenza; molto prima di Freud, che ne parlerà come dell’«avvenire di un’illusione»; prima, dunque, di tutti quelli che verranno definiti «i maestri del sospetto», Qohelet, nel cuore stesso di quella fede che lui, checché ne dicano gli inflessibili guardiani dell’ortodossia, ha deciso di non sconfessare ma di seguire nel suo percorso tortuoso e contraddittorio, denuncia il fatto che reperire un senso in questa vita sforzandosi di indagarla con rigore e passione non è che l’espressione di un desiderio dal quale non possiamo evitare di lasciarci trascinare, perché, non senza un senso, ma senza la
ricerca di un senso, non è possibile vivere.
Questo «vento di desiderio», espressione intrisa di poesia e di corporeità, dalla cui carnalità soltanto, del resto, il
senso e la s
ensibilità provengono e possono prendere forma, questa brezza travolgente pervade ogni cosa, ogni nostra esperienza della realtà: «vento di desiderio» sono la saggezza come la follia, la conoscenza come la stoltezza. Assennatezza e pazzia, difatti, albergano intrecciate in quel luogo irrisolto che è la nostra psiche e l’una, a ben guardare, non si dà e non si esprime senza l’altra; affidarsi ad una di esse a discapito dell’altra porta a due stoltezze speculari: o la notte della follia, dove la realtà e l’immaginazione si confondono; o la luce accecante e fredda della logica, dove ogni immaginazione è espulsa dalla realtà e la fantasia non coopera più alla ricerca e alla costruzione, sempre provvisoria, di un senso.
Conclude quindi Qohelet, il cercatore, amaro, lucido, disilluso: «Perché in molta saggezza, molta pena e aggiungere conoscenza è aggiungere dolore». Sono parole di una bellezza disarmante, di un’umanità palpabile, di un’umiltà autentica, non di facciata. Di questo fracasso dell’impresa umana che tutto vorrebbe circoscrivere, non rinvengo più le tracce. Non le rinvengo nelle teologie fedeli al dogma, che risolvono la tragicità della vita svuotandola nella sterilità della dottrina; ma non le rinvengo nemmeno in quel razionalismo onnipervasivo, sicuro di sé, che confida in delucidazioni aride che nulla aiutano a comprendere del mistero che siamo. Per i primi chi si affanna a cercare un senso non è che un presuntuoso; per i secondi, non è che un illuso. Da entrambi «chi resta per via» è trattato con il disprezzo che si riserva agli eretici e ai folli.
Mi addolora e mi sconcerta questo tempo di inquietudini risolte perché non più avvertite: mi atterrisce questa fede sicura e insensibile; mi avvilisce questo raziocinio esatto e vuoto. Non riesco a scorgerci umanità dietro, nemmeno l’ombra. Perché l’uomo è inquieto: qui risiedono il suo dolore e la sua bellezza. Qui risiede la sua natura più autentica e misconosciuta.
Quando ero in procinto di incominciare quegli studi che hanno accresciuto la mia pena, mio padre mi fece dono di un libro: raccoglieva gli articoli acuti e carichi d’umanità di chi si definì sempre ateo e che aveva intitolato questa sua raccolta:
Quaesivi et non inveni, «Ho cercato e non ho trovato», riferendosi proprio al senso dell’esistenza e al suo rapporto conflittuale, splendidamente irrisolto, con il divino. Qualche mese fa, rovistando nell’amata biblioteca paterna, mi sono ritrovato inaspettatamente il testo tra le mani. Pochi spiriti mi ricordano da vicino Qohelet quanto l’uomo che ha vergato queste righe, profondamente ironico e avvezzo al disincanto. Si chiamava Augusto Guerriero e firmava i suoi pezzi con lo pseudonimo
Ricciardetto. È con le sue parole, date alle stampe esattamente trent’anni fa, parole la cui inquietudine sento intimamente mia, che vorrei concludere questa meditazione:
«Non mi si chieda se sia soddisfatto di aver dedicato questi ultimi anni della mia vita a studi così ardui. Non avevo scelta. Dovevo farlo. Ma il frutto è amaro. Si va avanti e poi ci si accorge che il problema supremo è rimasto insoluto come prima, e solo il tormento è aumentato.
Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato.
È uno dei pensieri più poetici di Pascal e, solo a ricordarlo, mi vengono le lacrime agli occhi. Ma non è vero. Si cerca perché non si è trovato:
quaesivi et non inveni. Coloro che leggeranno questo libro, non si aspettino che io dica cose nuove […] È un libro di un uomo che, giunto alla sera della vita, ha perduto la pace. Ma quella pace, di cui ho goduto per tanti e tanti anni, era incoscienza. Ora, non ho più la pace, ma sono cosciente del mio dramma intimo. Forse, alcuni lettori saranno indotti da queste pagine a dubitare. Mi perdonino. Ma si ricordino che il dubbio è la condizione naturale dell’uomo, che non voglia rinunziare alla ragione. È stato Bonhoeffer a dire che l’uomo deve abituarsi – io direi: rassegnarsi – a vivere
etsi deus non daretur [«come se Dio non vi sia»].
Etsi: io direi
quamquam, benché Dio non sia. Ma il cuore, che ha le sue ragioni, non si rassegna»
[1].
Alessandro Esposito – Domenica 13 Gennaio 2013 -
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