Questa lettera ripropone il tema dell’omosessualità, di cui s’è parlato più volte e abbastanza diffusamente su Riforma e anche, una o due volte, su questa rubrica. A me pare, francamente, che non sia il caso di riaprire il dossier, non perché l’argomento sia chiuso o perché non meriti parlarne, ma perché è già stato ampiamente trattato: riprenderlo vorrebbe dire ripetere cose già dette e ridette più volte. Vorrei però ugualmente rispondere al nostro lettore, affrontando non il tema dell’omosessualità, su cui s’è già detto – mi sembra – abbastanza, ma quello dell’autorità della Bibbia nella nostra chiesa, che soggiace alla lettera e che sicuramente merita di essere sollevato. Spero che questa scelta non dispiaccia al nostro lettore. Prima però di parlare dell’autorità della Bibbia nella nostra chiesa, desidero fare due brevi osservazioni in margine a quello che il nostro lettore scrive sull’omosessualità. [a] La prima è questa: può darsi che in «certi ambienti» (ma quali? Perché non essere più espliciti?) coloro che manifestano posizioni critiche nei confronti dell’omosessualità siano – cito dalla lettera – «calunniati, ridicolizzati, messi in cima alla lista dei peggiori nemici dell’evangelo, della chiesa e della società». Devo presumere che il nostro lettore abbia fatto, in «certi ambienti », esperienze molto negative che l’hanno indotto a denunciare la situazione che egli descrive. È triste dover constatare ancora una volta che persone intolleranti, faziose, o semplicemente ignoranti esistono dappertutto, purtroppo anche in ambienti che si considerano cristiani. Detto questo, però, a me non pare che l’ostracismo che egli segnala e che colpirebbe coloro che criticano l’omosessualità, sia un fenomeno così diffuso da costituire un pericolo reale, neppure in un paese su certe questioni ancora così incivile come il nostro. Piuttosto è da segnalare il pericolo opposto: stando a quello che leggiamo sovente sui giornali, in Italia esiste ancora, anche qui in certi ambienti, una buona dose di omofobia, cioè di malcelata, sorda ostilità nei confronti di persone omosessuali, che spesso diventa commento malevolo, canzonatura, disprezzo, emarginazione, con esiti talvolta tragici, come nel caso (l’ultimo di tanti) del ragazzo quindicenne, che per le violenze verbali subite in quanto «gay», si è impiccato. [b] La seconda osservazione è questa: il nostro lettore sovrappone e (così almeno mi sembra) alla fine confonde temi e problemi che dovrebbero restare accuratamente distinti. Una cosa è ritenere discutibile, o senz’altro sbagliata, o quanto meno affrettata la decisione sinodale di autorizzare la benedizione liturgica di coppie omosessuali, prima di averne chiarito il significato e la portata e di conoscerne la formulazione; una cosa molto diversa è identificare l’omosessualità come «male», come mi sembra faccia il nostro lettore, se ho letto bene quanto egli scrive: una identificazione del genere non la condivido affatto. Ma, ripeto, queste sono solo due note marginali, perché il tema di questo dialogo non vuole essere l’omosessualità, ma l’autorità della Scrittura nella nostra chiesa. Nell’ormai lontano 1985, l’allora professore di Nuovo Testamento all’università di Zurigo Jean Zumstein, pubblicò un piccolo libro presto esaurito dal titolo allarmato e allarmante – quasi un’invocazione accorata, o un vero Sos: Salvate la Bibbia! Perorazione per una lettura rinnovata (Sauvez la Bible! Plaidoyer pour une lecture renouvelée). Benché vecchio di 27 anni (per la maggior parte dei libri che si pubblicano oggi sono tantissimi), questo libretto di appena 67 pagine non è minimamente invecchiato. L’autore ritiene che il protestantesimo in generale in tempi recenti abbia «perso contatto con la Bibbia, senza la quale esso non è nulla» (p. 6): un giudizio, come si vede, radicale, ma tutt’altro che campato in aria. Non solo, ma i pastori protestanti (certo non tutti, ma neppure pochi) «non hanno più una chiara coscienza del valore e del ruolo della Bibbia, né una volontà decisa di mantenerla al centro della Chiesa» (p. 6). Questa situazione che appare qua e là nel protestantesimo diventa,
secondo l’autore, particolarmente evidente negli ambienti ecumenici e in certi documenti che essi producono (a esempio nel Bem), nei quali, secondo Zumstein, «la Bibbia non è più né la sola né la prima autorità invocata per puntellare le tesi teologiche proposte (…) Il sola Scriptura caro ai Riformatori è abbandonato, e ormai la Bibbia resta certo un testimone prestigioso, ma un testimone tra altri, una specie di primus inter pares» (p. 23). Insomma: il canone biblico non è più considerato come la fonte esclusiva della rivelazione; la Bibbia ha perso il suo status unico.
C’è poi un terzo ambito nel quale si assiste, secondo Zumstein, a un processo di relativizzazione della Bibbia: l’ambito accademico delle Facoltà teologiche. Qui accade (non dappertutto, sia chiaro, ma accade) che gli esegeti della Scrittura siano «diventati dei tecnici del testo, e abbiano cessato di essere dei teologi» (p. 31): spiegano scientificamente il passo biblico, ma non sanno o non vogliono metterne in luce il messaggio per la fede, ritenendo che questo non sia «scientifico» e non rientri nei loro compiti. Come se coloro che hanno scritto la Bibbia non l’avessero scritta proprio per suscitare o risuscitare la fede in Israele, nella Chiesa e nel mondo. La diagnosi del prof. Zumstein può naturalmente essere discussa, ma fotografa una situazione che ritengo riguardi da vicino anche noi. La situazione critica che egli a grandi linee descrive è presente anche nelle nostre chiese, nelle quali, in misura ovviamente variabile, la Bibbia è indubbiamente letta, predicata e onorata, ma è anche e sempre di nuovo minacciata da due pericoli opposti: il primo è la sua sacralizzazione, che produce il fondamentalismo; il secondo è la sua secolarizzazione, che produce il suo crepuscolo come canone della fede. Vediamo più da vicino questi due pericoli.
1. Il primo è la sacralizzazione della Bibbia, che in casa protestante risale già alla seconda metà del Cinquecento e poi si afferma nel Seicento, ai tempi dell’Ortodossia, quando si stabilì il principio dell’ispirazione verbale della Scrittura, secondo il quale ogni parola della Scrittura è divinamente ispirata: la mediazione degli autori biblici è stata totalmente passiva; essi, per così dire, hanno scritto sotto dettatura; la loro individualità (quindi la loro cultura e quella del loro tempo) non ha – secondo questa dottrina – minimamente influito sulla stesura dei loro scritti, che quindi vengono letti come se fossero caduti dal cielo e scritti non da uomini, ma da angeli. La loro interpretazione si riduce alla loro ripetizione. Benché nasca da un’esigenza legittima (ancorare la fede unicamente alla Parola di Dio che risuona nella Scrittura), la lettura fondamentalista ha il torto, mi sembra, di non tenere sufficientemente conto dell’umanità della Bibbia, del fatto cioè che la Bibbia è stata scritta da uomini certamente ispirati da Dio, ma che erano anche in tutto e per tutto uomini del loro tempo; perciò nella Bibbia c’è la Parola di Dio che dura in eterno, ma ci sono anche affermazioni e posizioni legate alle conoscenze e alla cultura del tempo in cui gli autori biblici sono vissuti – affermazioni e posizioni che come tali hanno valore provvisorio e non sono vincolanti per la fede cristiana. A esempio, a proposito dell’omosessualità, noi oggi sappiamo cose che gli autori biblici non potevano sapere e che hanno – così mi sembra – un peso determinante nella valutazione del fenomeno. Discernere nella Bibbia la parola divina distinguendola dal suo rivestimento letterario umano è un compito rischioso, ma indispensabile, per non confondere ciò che è divino con ciò che è umano, e ciò che è umano con ciò che è divino.
2. Il secondo pericolo è la secolarizzazione della Bibbia, che consiste nel suo declassamento a semplice documento storico sullo stesso piano di altri testi religiosi analoghi (a esempio la vasta letteratura cristiana apocrifa (evangeli, lettere pseudo-apostoliche, apocalissi) o testi ebraici extra-canonici. Succede talvolta anche nelle nostre chiese che si parli della Bibbia, la si studi e commenti, come se non fosse più il nostro canone, cioè la misura e unica fonte della fede e della vita. Rapportarsi alla Bibbia come canone significa due cose. Anzitutto significa che la Bibbia deve avere autorità su di noi, sui nostri pensieri, le nostre decisioni, i nostri comportamenti. Nessuna istanza, religiosa o laica, può avere su di noi più autorità della Bibbia, e soprattutto è la Bibbia che deve signoreggiare su di noi, non noi sulla Bibbia. In secondo luogo significa che la nostra fede e la nostra vita devono essere nutrite e guidate dal messaggio biblico. Riconoscere la Bibbia come canone, significa trovare in essa la fonte e la sostanza del nostro essere cristiani. «Questo libro della legge [e dell’evangelo! l’intera Bibbia] non si diparta mai dalla tua bocca, ma meditalo giorno e notte, avendo cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto» (Giosué 1, 8).
Paolo Ricca - da 'Riforma' n. 1 del 4 gennaio 2013 -
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