Ne ho avuta l’ennesima conferma pochi giorni fa, quando per 2 euro ho acquistato nella bottega del Libraccio, sul Naviglio Grande di Milano, un volume di 280 pagine pubblicato a Palermo da Gelka Editori nel 1990: La vecchia dell’aceto, di Giovanna Fiume (una degna erede del grande Giuseppe Pitrè negli studi sulla storia e il folclore del popolo siciliano).
L’incredibile storia di Giovanna Bonanno, l’ingegnosa palermitana che sul finire del ‘700 aiutò un buon numero di donne a liberarsi dei mariti odiosi e odiati col drastico sistema dell’aceto (un veleno inodore e insapore, a base di arsenico), è fin troppo risaputa perché io la debba qui compiutamente rievocare: basta fare “clic” su Google-Wikipedia per trovarla riassunta a dovere, quel tanto che basta per intuirne gli abissi criminali e i risvolti sociali. Ma è proprio in quegli abissi che il libro di Giovanna Fiume s’immerge fino in fondo. Perché, attraverso gli atti del maxi-processo che si svolse a Palermo tra il 1788 e il 1789, ci fa entrare nel cuore vivo di quel mondo popolare colmo di miserie e di passioni che, forse, non è poi così remoto e diverso dal nostro come si sarebbe tentati di immaginare.
Prendiamo il caso di Rosa Mangano, l’ultima delle mogli avvelenatrici, quella che con il suo delitto spalancò, senza volerlo, la via del tribunale e della forca all’implacabile vecchietta serial-killer del quartiere Zisa. Rosa aveva appena quindici anni quando andò in sposa a Francesco Costanzo, un campagnolo che guadagnava pochi soldi con occasionali lavori di fatica. Com’è, come non è, passarono pochi anni e il loro matrimonio cominciò a traballare. Probabilmente Rosa era stanca della rozzezza di quel marito che non perdeva occasione per sommergerla di insulti o per farle girare la testa a suon di ceffoni. Fatto sta che un giorno la sposina conobbe un giovane di vent’anni, un giardiniere di nome Emanuele Cascino. Forse vide in lui un tipo d’uomo un po’ meno brutale di Francesco, e tanto bastò perché ne fosse presa, fino a schiudergli l’uscio della sua stanza da letto.
Già, ma come sbarazzarsi del marito per poter vivere in santa pace con l’altro uomo? La parola “divorzio”, a quei tempi, non era scritta nemmeno nei vocabolari. Figuriamoci a pronunciarla! Sarebbe stata la morte sicura per la povera Rosa. Un bel taglio alla gola, e amen. E allora accontentiamoci della tresca, del triangolo occulto, della solita storia di corna vissuta in trepidante segreto. Fino a quando, una sera, accadde quel che doveva accadere: Francesco tornò a casa prima del previsto, bussò con violenza alla porta ch’era sprangata dall’interno, e lo spaventatissimo amante, per non morire sbudellato, mise in scena uno spettacolo degno d’una farsa boccaccesca. Riferisce Rosa negli atti del processo riscritti da Giovanna Fiume: «Io fui presa dalla confusione e chiesi consiglio al Cascino che mi disse di andare ad aprire, e così feci. Mentre tornavo su per le scale seguita da mio marito, vidi Cascino con un bastone in mano che dall’ultimo gradino urlò a mio marito: ahi, cane, allargati!, scendendo le scale a precipizio e scappando fuori».
Cascino si salvò la pelle, ma per Rosa ebbe inizio l’inferno. Insulti, percosse, cinghiate: una vita impossibile. Il marito non la perdonava, e rincarava le dosi della consueta brutalità. Che fare? Un giorno, poco dopo l’ennesima bastonatura, Rosa uscì pesta e dolente nella strada, e per sua estrema disgrazia incontrò Emanuele. Gli narrò le sue pene, e quello per tutta risposta le propose di farla finita col marito per mezzo d’una “certa acqua” di cui aveva sentito parlare: uno strano “aceto” miracoloso, fabbricato e spacciato per pochi tarì da una vecchia strega del quartiere, che nel giro di pochi giorni, disciolto nel cibo e nel vino a piccole dosi regolari, garantiva la soluzione perfetta di ogni conflitto coniugale, senza timore che i medici e gli sbirri potessero sospettare qualcosa.
Afferrato il consiglio, Rosa non se lo fece ripetere due volte. Acquistò l’aceto, e cominciò a somministrarlo al marito. Ed ecco quel che avvenne, nel racconto di Rosa: «Erano circa le ore venti, e (Francesco) mi chiese della pasta da mangiare e del vino da bere. Non ricordo se preparai pasta con le lenticchie o pasta sola, però nel vino mescolai all’occulto parte del liquore della carrabbella (che conteneva il veleno). Finito di mangiare, uscì di casa e andò alla taverna che si trova accanto alla ranteria dell’Olivuzza. Tornò dicendomi che aveva vomitato e continuò a vomitare anche l’indomani».
Così morivano i poveri disgraziati avvelenati dall’aceto di Giovanna Bonanno: lanzannu, cioè vomitando. Ma la morte non sopravveniva rapidamente. Ci volevano giorni e giorni di pasta e vino conditi con quell’intruglio micidiale. E quasi due settimane durò la tremenda agonia di Francesco Costanzo, che finalmente se ne andò all’altro mondo nella notte del 23 settembre 1788. Nemmeno il tempo di seppellirlo, e già Rosa e il suo amante avevano fissato il giorno delle loro nozze: doveva essere il 9 di ottobre. Tutto era pronto, il piano sembrava perfetto: «Ma la sera del giorno 8 ottobre, circa le ore due della notte, venne don Matteo Fodale, Commissario di ronda dell’Illustrissimo Capitano Giustiziere di questa città, con alcuni ufficiali di giustizia, e mi catturò insieme al Cascino che meco trovavasi e ci condussero carcerati».
La giustizia, però, fu stranamente clemente nei confronti di Rosa e di Emanuele: lei fu rinchiusa in carcere per vent’anni, lui se la cavò con quindici anni di lavori forzati. Di tutti i numerosi imputati di quel clamoroso processo, soltanto la vecchia dell’aceto fu condannata a morte. Aveva più di ottant’anni. Il suo corpo penzolò dalla forca in Piazza Vigliena (i Quattro Canti) la mattina del 30 luglio 1789. I giudici furono più severi con lei non tanto per la somma dei crimini che aveva commesso, quanto perché la ritenevano un’immonda fattucchiera. In pieno clima illuministico, la vecchia dell’aceto aveva risuscitato negli animi i fantasmi della stregoneria, che sembravano svaporati per sempre dopo l’abolizione dell’Inquisizione in Sicilia, formalmente decretata sette anni prima dal re Ferdinando III di Borbone.