Il pastorato è un ministero e, come tale, un compito di servizio: non ha autorità alcuna il pastore; dovrebbe essergli riconosciuta, piuttosto, autorevolezza: sempre da quella stessa comunità che un pastore è chiamato a formarlo, ad accompagnarlo e a contraddirlo, quando è necessario. Un passo indietro rispetto alla sua comunità: ecco il posto che spetta al pastore. Quello che di solito noi pastori in senso ecclesiastico occupiamo di meno. Imparare ad esporsi soltanto quando serve: e si tratta, il più delle volte, di momenti delicati, di circostanze scomode e talvolta persino rischiose. È in quei frangenti che un pastore è chiamato a dimostrare nei fatti il suo amore per la comunità e la sua vocazione profetica assai prima che ecclesiastica: è lì che deve stare un passo avanti. Ed è lì che, il più delle volte, quando più si avrebbe bisogno di lui, o di lei, d’improvviso scompare, si dilegua. I pochi che, invece, si espongono, sono spesso oggetto delle critiche delle rispettive chiese, che non di rado finiscono per abbandonarli al loro destino, con la scusa, sempre valida, che «in fondo se la sono cercata». Poi, quando le acque si saranno calmate, ne faranno dei santi: sempre dopo, però. Prima non conviene. I santi sono utili dopo; prima servono donne e uomini: ma di quelli se ne trovano pochi, sono merce rara. Ma c’è un altro punto su cui vorrei soffermarmi a riflettere.
Noi occidentali, per lo più, abbiamo con la terra un rapporto di possesso, fondato sul presunto diritto allo sfruttamento: di fatto la terra non la conosciamo più e, di conseguenza, non sappiamo più ascoltarne le richieste ed i clamori. Abbiamo dimenticato che da noi dipende la sua vita e da lei la nostra sopravvivenza. Non così i pastori: loro, umili, sanno di venire dalla terra, di esserle debitori di tutto ciò che sono, non appena di ciò che hanno. Ed è a loro che Dio affida, sicuro, il lieto annuncio.
Annuncio che prende il volto di un bimbo, perché chi ha cura della terra garantisce a lei e a sé un futuro. Di questo neonato il messaggero di Dio dirà qualcosa di inatteso: «È stato generato per voi oggi un salvatore». Il nome stesso del piccolo, Gesù, in ebraico
Yehoshua, significa proprio «Dio ha salvato»: al passato, perché la lingua ebraica non conosce il presente. La salvezza è comunicata come un qualcosa di già avvenuto, come ciò che sta sempre, immancabilmente, nei pensieri di Dio.
Come chiese cristiane siamo (mal) abituate a declinare questa salvezza in senso religioso, astratto, in fin dei conti innocuo, perché una religione costituita non scomoda i poteri, li legittima. Invece, questo Dio che specchia la propria volontà nel volto di un bimbo, parla di salvezza in ben altro modo, assai più imbarazzante per i potenti, sia politici che religiosi, tanto da suscitare il loro immediato rifiuto, la loro più ferma opposizione. Questo salvatore, dice infatti chiaramente il messaggero di Dio, è «per
voi»: intendendo, con questo, quegli stessi pastori a cui le sue parole sono dirette. In sostanza, un messia per diseredati, che chiama gli ultimi quali suoi testimoni, perché saranno proprio costoro i destinatari di un evangelo che è rivolto a tutti indiscriminatamente soltanto nella misura in cui rivela la sua
parzialità, la sua preferenza esplicita per gli esclusi. Spesso, come chiese, abbiamo fatto dell'universalità dell'evangelo una formula dentro cui annacquarlo, svuotandolo in tal modo di quel contenuto che si rivela
salvifico soltanto
perché sovversivo: il suo messaggio, infatti, è annuncio di liberazione rivolto a quanti sono vittime di un'oppressione che si regge sull'iniquità, su un'ingiustizia che i poteri, ivi inclusi quelli religiosi, giustificano, garantiscono e consolidano.
L’evangelo, invece, il «lieto annuncio», è lieto perché
schierato, non perché imparziale; è dichiarazione esplicita della posizione che Dio assume nell'eterno conflitto tra oppressore ed oppresso.
In tal senso trovo illuminanti le parole del teologo della liberazione salvadoregno Jon Sobrino:
«Dio si è manifestato nella storia attraverso la concretezza della povertà e dell'impoverimento: ciò che fa sì che questo punto di vista
parziale non sia
riduttivo è precisamente il fatto che i poveri e la povertà sono stati scelti da Dio quale
luogo privilegiato della sua manifestazione (...) E in ciò vi è e vi sarà sempre un certo scandalo» [SOBRINO, J.
Jesús en América Latina, Sal Terrae, Santander, 1982, pp. 60-61 -traduzione mia-]
Ciò che è necessario, dunque, è che l'annuncio portato da noi chiese che intendiamo confessare Gesù come messia riscopra lo
scandalo quale propria dimensione costitutiva. L'evangelo, infatti, è messaggio parziale, schierato, che intende essere messo al servizio della costruzione di un mondo diverso, fondato su relazioni più giuste: un mondo capace di restituire agli ultimi quella dignità che il Dio biblico per primo riconosce, proclama e difende e senza realizzare la quale la nostra fede in Lui e in Gesù non può essere altro che un involucro vuoto e una confessione sterile, utile, soltanto, a lasciare le cose così come stanno.
Celebrazione Ecumenica del Natale, 18/12/ 2012
Pastore
Alessandro Esposito