Mi potesse cadere una mano per terra, se la storia che vi racconto non è vera in ogni suo minimo particolare. Mi trovavo un giorno in piazza Loggia in compagnia dello zio Ernesto: un uomo che molti marsalesi ancora ricordano per la sua capacità di ironizzare su ogni fatto della vita con intelligenza estrema, e con un senso dell’umorismo veramente degno di un grande attore comico. Io avrò avuto vent’anni, e lui una sessantina. Chissà perché, ci mettemmo a parlare della morte. Dopo poche battute il discorso rischiò di inerpicarsi per sentieri filosofici, e allora lo zio pensò bene di troncarlo con una delle sue tipiche invenzioni. Si fece serio – ma di quel serio suo che già mi strappava la voglia di ridere senza sapere perché – e si mise a recitare nel tono più ispirato di questo mondo: «Massimo mio, lo vuoi sapere veramente che cos’è la morte? Te lo spiego subito. Mettiamo che un giorno io crepo. Tre giorni dopo due tizi s’incontrano per caso qui in piazza Loggia, e uno dice all’altro: ma lo sai chi è morto? E l’altro gli risponde: no, e chi è morto? E il primo gli dice: è morto Ernesto Jevolella. E l’altro allora scuote la testa ed esclama: o cazzo! E poi vanno qui al bar di fronte a prendersi un caffè. Massimuzzo, credimi, la morte non è altro che questo».
Lì per lì io ci feci una risatina, ma quel discorso in realtà mi colpì come una mazzuliata ‘n testa, rimanendomi impresso in modo indelebile. Passarono da quel giorno alcuni anni. Lo zio Ernesto si ammalò di un tumore ai polmoni, e nel giro di pochi mesi se ne andò all’altro mondo. Passarono altri due o tre anni dopo la sua morte, e un giorno, mentre passavo da piazza Loggia, mi imbattei in un signore, vecchio amico di mio padre, che mi riconobbe, mi fermò e cominciò a chiedermi notizie della mia famiglia. A un certo punto mi disse: «E come sta Ernesto, il fratello di tuo padre?». «Ah – risposi – non lo sapete? Zio Ernesto è morto già qualche anno fa». E lui: «È morto? Non lo sapevo… o cazzo!». E poi mi volle offrire un caffè.
Nanno, t’abbruciu ‘u culu
Lo zio Ernesto fu assai precoce nel suo umorismo drammatico. Le cronache di famiglia riferiscono che quando Ernestino era picciriddo di tre anni, un giorno si mise a ronzare come una mosca appizzusa intorno al nonno Domenico, che stava schiacciando un pisolino su una poltrona a dondolo di vimini intrecciati. E mentre gli passava davanti, ogni tanto gli diceva, in tono di subdola canzonatura: «Nanno, t’abbruciu ‘u culu!». Ma il nonno ronfava, e non s’accorgeva di nulla. La scena si ripeté più volte. Fino a quando Ernestino scomparve, ma solo per ricomparire, pochi minuti dopo, con una cannila addrumata in mano. E senza tante storie infilò la candela sotto la poltrona del nonno, e la mantenne ferma fino a quando il pover’uomo, svegliandosi di soprassalto, lanciò un grido di dolore, e s’alzò come una furia palpeggiandosi le natiche arroventate. Ernestino scoppiò a ridere e si sottrasse lestamente ai ceffoni di sua madre esclamando: «Nanno, eo ti l’avìa rittu ca t’abbruciavu ‘u culu!».
Qui giace Don Diego Mangiapanelli
Don Diego Mangiapanelli aveva un mitico bazar sul porto di Pantelleria. Da lui si trovava di tutto. Era anche un uomo gentile e paziente. E ve lo posso garantire, perché più di una volta, invece di mandarmi al diavolo, mi aiutò ad agganciare con calma al filo gli ami della canna da pesca, stringendo nodini invisibili con le sue grosse mani scure e rugose.
Quando io lo conobbi, don Diego avrà avuto non più di cinquant’anni. Non era malato, e tuttavia già da tempo aveva predisposto ogni cosa in vista della sua morte. Appoggiata a una parete del bazar, teneva esposta in bella vista una lapide di marmo. Era la lapide della sua futura tomba. Vi erano scritti il suo nome e la data di nascita. Restava uno spazio vuoto, che attendeva la data del decesso. Ai clienti che la guardavano incuriositi diceva serio serio: «Quella non è in vendita, perché serve a me».
Don Diego morì negli anni Ottanta. E se Dio vuole, la prossima volta che andrò a Pantelleria cercherò la sua tomba, e pregherò davanti a quella lapide per ringraziarlo ancora dell’infinita pazienza che ebbe con me e con le mie canne da pesca.
Il cugino del figlio del fratello di suo padre
Nino La Vela era il fratello della suocera del mio caro cugino Roberto Jevolella, ed era anche il fratello di quel sant’uomo del canonico La Vela che, se non vado errato, ebbe degna sepoltura nella chiesa dell’Addolorata a Marsala. Era un ometto stempiato, elegante, serissimo. Tutta apparenza. In realtà adorava le facezie, si credeva assai spiritoso, e negli ultimi anni della sua vita s’era specializzato in un tormento che usava infliggere a chiunque avesse la ventura di incontrarlo per strada. Non c’era verso di sfuggire ai suoi rebus genealogici, che in meno di un minuto riuscivano a paralizzare anche il cervello di un genio. Un giorno mi adocchiò in via Undici Maggio e mi salutò con un cenno del capo. Commisi l’imprudenza di fermarmi per ricambiare il saluto. Attaccò subito bottone: «Ah, tu sei il figlio di tuo padre, cioè del fratello della sorella che ebbe per madre tua nonna Rosalia: giusto?». Lo guardai alluccuto, non osai rispondere, ma lui non si arrestò. «Se non mi sbaglio, poco fa, qui a Porta Nuova, proprio davanti al Cine Impero, ho visto passare l’altro figlio della moglie di tuo padre. Era in compagnia del figlio del fratello del nipote del tuo bisnonno, quello che abita in contrada Ponticello e ha sposato la figlia del marito di mia sorella, che ha il negozio di abiti da uomo in via Roma».
Andò avanti così, non so per quanto. Ma infine ebbe pietà di me: a un tratto sorrise, estasiato dalle proprie arguzie, troncò il vaniloquio e sveltamente si accomiatò con un: «S’abbinirica, giovanotto». Lasciandomi stordito in mezzo alla strada.
Allora pensai che fosse un tipo bislacco, o uno sciocco, per non dire di peggio. Oggi invece, ripensandoci bene, mi rendo conto che la mente di quell’uomo era di fatto un infallibile computer, capace di visualizzare in frazioni di secondo tutte le combinazioni e gli intrecci genealogici di un gran numero di famiglie marsalesi. E ricordo che, di lui, mio padre diceva sempre: «Sarà quello che sarà, comunque è un gran signore. Un uomo onesto, educato… ha quell’unico vizio, ma il buon Dio glielo saprà perdonare, ne sono sicuro».
La filosofia di Mastràsparo
Eccovi una storia di cent’anni fa. Mastro Gaspare, da tutti chiamato Mastràsparo, era una specie di vagabondo che vivacchiava alla bell’e meglio prestandosi a destra e a manca nei più svariati servizietti e lavori. Non apparteneva proprio alla categoria dei morti di fame, ma quasi. Venti centesimi di qua, mezza lira di là, un paio di vecchie brache del marito defunto regalate da una vedova, e il bilancio di Mastràsparo era più in attivo di quello dello Stato italiano. E tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che fosse questa la ragione della sua eterna allegria. Sì, perché lui, come l’antico filosofo greco Democrito, sembrava quasi indifferente a tutte le sventure del mondo. Anzi, molto spesso ci rideva anche sopra. Per questo la gente lo trattava con un misto di pena e diffidenza, come una specie di Giufà, commiserando la sua dura condizione di senza famiglia e senza fissa dimora.
Qualcuno, però, ogni tanto si divertiva a provocarlo. Non come certi picciotti scimuniti, che a volte gli tiravano i sassi tra i piedi. Ma in modo più garbato, rivolgendogli sempre la stessa domanda: «Mastràsparo, ci dite perché ogni volta vi vediamo così contento? Non vi capita mai una giornata di malumore?». E come in un rito, lui rispondeva invariabilmente: «È facili diri: sugnu contentu picchì quannu vivu eo ‘a pigghia ‘n c… cu mori, e quannu moru eo, ‘a pigghia ‘n c… cu campa».
Per questo a Marsala una volta si diceva, nello occasioni di collera e di sconforto, che la condotta più saggia sarebbe sempre quella di seguire la filosofia di Mastràsparo.
L’uomo motocicletta
Più che un filosofo, lui era un genio. Se non l’avessi visto coi miei occhi, non ci avrei mai creduto. Negli anni Sessanta lo chiamavano tutti “lo scemo di San Vito”. Ma lui era molto di più, e molto meglio di uno scemo qualunque. Amava le vespe e le lambrette, ma non avendo in tasca il becco d’un quattrino per accattarsene una, aveva realizzato il suo sogno con un sistema da fare invidia all’uovo di Colombo. S’era trasformato in una motoretta vivente.
Chi non conosce San Vito Lo Capo deve fare un piccolo sforzo d’immaginazione per comprendere bene la scena: l’antico borgo di pescatori è collegato alla strada statale per Trapani e per Palermo da un rettilineo lunghissimo, che scende verso il mare calando in lieve pendio dal bassopiano che cinge da nord il Golfo del Cofano. Saranno, credo, almeno due chilometri di rettifilo perfetto che taglia in due il paese mirando dritto alla spiaggia. Quel genio della scemenza, allora, cosa s’era inventato?
Tre o quattro volte al giorno, col sole o con la pioggia, estate o inverno che fosse, lui saliva a piedi in cima alla strada, si fermava nel punto più alto del rettifilo, si metteva al centro della carreggiata col viso rivolto verso il mare, si guardava bene attorno per accertarsi che almeno un cristiano lo stesse ad ammirare, e sferrando un calcio sulla pedivella accendeva il motore. Sì, il motore. Perché lo scemo era realmente e assolutamente convinto non di possedere, ma di essere lui stesso una potente motocicletta. Strombazzando con le labbra serrate ogni sorta di pernacchie, di rombi e di scoppi, ruotava furiosamente con la mano destra la maniglia del gas, e di colpo partiva. E sempre rombando, scoppiettando e spernacchiando correva, correva giù lungo la strada a rotta di collo verso il mare, suonando la tromba per avvertire i passanti e i veicoli che incrociava, giù giù, sempre più rapido e rombante fin quasi a schiantarsi contro il muretto di pietra e cemento che delimita la spiaggia. Ma a meno di un metro dal muro frenava, strideva, fischiava, ronzava, piegava la corsa verso sinistra effettuando una curva da brivido, per poi accelerare di nuovo, e rombando ancora più forte si dileguava tra i pini marittimi del lungomare in direzione del molo, sparendo tra i vicoli del vecchio porto, dove probabilmente abitava in qualche tugurio di povera gente.
Fino al 1994 rimasi convinto che un caso di pazzia come questo fosse più unico che raro. Poi mi capitò di leggere, a pagina 86 del fantastico libro di Roberto Alajmo Repertorio dei pazzi della città di Palermo, la storia di un altro genio che credeva di essere un’automobile, e andava in giro gridando “pipì popò”. E cominciai a chiedermi se questo tipo di pazzia (o di sublime saggezza: dipende dai punti di vista!) non fosse per caso un’esclusiva della Sicilia. O addirittura, solo del tratto di costa fra Trapani e Palermo.