I fondi ovviamente nonpossono andare a chi e sotto sorveglianza di polizia o ha una condanna per mafia. Ma bastava un’autocertificazione per ottenerli. La prima domanda, banalissima, che viene in mente è la seguente: come mai nessuno faceva i controlli? È un interrogativo che si pongono spesso anche i magistrati della Corte dei conti, quando si trovano davanti a casi come quello di Gaetano Riina. L’anno scorso il fratello di Totò Riina, l’ex Capo dei Capi di Cosa Nostra, si è visto confermare in appello una condanna a restituire all’Agea, l’agenzia che eroga i finanziamenti agli agricoltori, contributi pubblici per 25.328 euro. I giudici contabili hanno concluso che il Gaetano Riina aveva intascato fondi comunitari senza averne diritto. Secondo la legge i contributi di Bruxelles non possono essere erogati né a chi è sottoposto a misure di prevenzione quali la sorveglianza speciale di polizia (ed è questo il caso), né a chi abbia subito una condanna in appello per associazione mafiosa, senza aver ottenuto una successiva riabilitazione.
Per ben sette anni dal 1997 al 2004, hanno argomentato i magistrati nella loro sentenza, il fratello di Totò Riina aveva presentato regolare domanda, «omettendo peraltro di produrre la certificazione antimafia», e l’agenzia che dipende dal ministero delle Politiche agricole aveva pagato. Senza evidentemente battere ciglio. Una delle poche circostanze in cui il principio dell’autocertificazione funziona a dovere. Ragion per cui la Corte dei conti ha fatto a Riina pure lo sconto. Mentre la procura aveva chiesto la restituzione di 42.214 euro, i giudici si sono infatti limitati al 60% di quella somma. «Considerato», hanno scritto nella sentenza, «che nel causare il danno erariale complessivo ha inciso pesantemente anche l’amministrazione erogatrice del contributo, che ha sostanzialmente omesso i controlli di competenza in ordine alla regolarità e alla ammissibilità delle istanze presentate dall’interessato».
Una semplice sbadataggine o qualcosa d’altro? Chissà. Di sicuro un nome come quello non poteva passare inosservato nemmeno nel 1997: il fratello di Gaetano, Totò, era da quattro anni in carcere. Più complicato sarebbe stato fare tana a Giuseppe Spera, fratello di Benedetto Spera, uno degli uomini più fidati di Bernardo Provenzano, morto in carcere nel 2007. Le sue domande di accesso ai fondi agricoli europei erano state infatti presentate attraverso un’associazione di categoria. Ma anche allora nessuno aveva fatto poi le necessarie verifiche. E qualche mese fa i giudici contabili hanno sentenziato che i suoi eredi dovranno rimborsare all’Agea 38.593 euro di contributi indebitamente incassati fra il 1997 e il 2002. Il fatto è che situazioni come queste non sono affatto isolate. Negli ultimi tre anni la Corte dei conti ha emanato una cinquantina di sentenze per danno erariale a carico di esponenti conclamati della criminalità o di persone sottoposte a misure di polizia che avevano incassato contributi pubblici destinati agli agricoltori. E, a conti fatti, i contributi truffati così sarebbero circa due milioni di euro.
L’ultima sentenza è di fine ottobre. Biagio Mamone, che era stato condannato in via definitiva a otto anni per associazione mafiosa e concorso in estorsione nel lontano 1985, aveva percepito fino al 2009 i denari del fondo europeo. Circa 11 mila euro in tutto, che se la decisione di primo grado sarà confermata, dovrà adesso rendere al ministero. Negli stessi giorni, in Calabria, la Corte dei conti chiedeva al settantatreenne Antonio Piromalli la restituzione di 25.720 euro. Soldi incassati per le campagne olivicole sebbene il «coltivatore» hanno sottolineato i magistrati, fosse stato sottoposto per cinque anni al soggiorno obbligato. Va ricordato che non sempre si parla di cifre modeste. Qualche anno fa la Guardia di Finanza di Capo D’Orlando ha scoperto che un allevatore sottoposto a sorveglianza speciale aveva intascato quasi 250 mila euro di contributi nel quattro anni precedenti. Senza poi considerare che molti di questi illeciti finiscono in prescrizione. Tre anni fa se l’è cavata così Alberto Campo, condannato nel 1994 per associazione mafiosa che, nonostante questo, aveva continuato a percepire i contributi che spettano ai marittimi imbarcati sui pescherecci: in tutto 120 milioni di vecchie lire. Peccato, ha stigmatizzato la sentenza, che per nove anni, dal 1999 al momento in cui si è messa in azione la Corte dei conti,
nel 2008, non sia stato «mai notificato alcun atto interruttivo della prescrizione». Eppure, affermano i giudici, non era difficile: «Sia la capitaneria di porto di Milazzo, che aveva istruito la pratica per la concessione delle indennità, sia il ministero dell’Agricoltura, che ordinò la corresponsione dei benefici, sia la stessa Guardia di finanza, avrebbero potuto acquisire in qualsiasi momento il certificato del casellario giudiziale…».
Sergio Rizzo - Il Corriere della Sera