Storie magiche di pietre che cantano, di uomini con il loro duro lavoro, di cave sepolte in una terra prevalentemente agricola. Storia di due fratelli, Giuseppe e Antonino Scalisi, raffinati artigiani che, dopo una pesante giornata passata ad elevare muri di tufo e malta, sentono l’esigenza di frequentare, dopo cena, una estemporanea scuola serale, dove, alla fioca luce di una lampadina del dopoguerra, apprendono il disegno ornato e architettonico e la tecnica della prospettiva. Compensato però dall’illuminante insegnamento del talentuoso ma incompreso professore architetto Carmelo Lampiasi. Una storia di uomini che mirabilmente s’intreccia ad una arenaria dal colore caldo di un giallo millenario e che veniva estratta fino agli Anni 40 lungo le pareti del Monterose. La “Pietra Campanedda” utilizzata attraverso i secoli per adornare chiese e palazzi patrizi, ma anche per innalzare il maestoso Castello Arabo-Normanno-Federiciano. Ce ne siamo già occupati ai primi di giugno quando informammo per primi i nostri lettori che l’Assessorato Regionale dei Beni Culturali ed Ambientali e dell’Identità Siciliana, e più precisamente la Commissione REI presieduta dall’Prof. Aurelio Rigoli, Presidente del centro internazionale di etnostoria, aveva iscritto nel Registro dei Beni Immateriali, Libro dei Saperi, la “Pietra Campanedda” di Salemi.
L’iter amministrativo è stato curato da Irene Cavarretta e Mariella Barbera per conto dell’Associazione Culturale “Archetipo”. Nei giorni scorsi si è celebrato l’evento con un convegno tenuto nell’ampio salone del Castello di Salemi, a cui hanno preso parte, tra gli altri, il prefetto Leopoldo Falco, la Soprintendente pei i Beni Culturali ed Ambientali di TrapaniPaola Misurata, la prof Anna Maria Amitrano , Ordinario di Etnologia , Aurelio Pes , Segretario della Commissione Scientifica R.E.I., e in ultimo, ma non per importanza,Antonino e Giuseppe Scalisi, Artigiani Maestri muratori, Cavatori e scultori di pietra Campanedda, che hanno fornito appassionate e appassionanti testimonianze. Nel corso dell’incontro il prof. Aurelio Rigoli, presidente del centro di Etnostoria, ha proposto la creazione di una Scuola di restauro a Salemi come sezione distaccata dell' “Opificio delle pietre dure” di Firenze, mentre l’esuberante Giuseppe Scalisi, ha lamentato l’assenza di interessamento da parte di tutti i sindaci, fatta eccezione per Luigi Crimi, ha riproposto la costituzione di un museo dove esporre le opere realizzate dal fratello Antonino, il vero artista tra i due, ha ammesso. Che con la “pietra campanedda” ha realizzato delle autentiche opere artistiche, per giudizio unanime. I due fratelli la conoscono fin dall’età di dieci anni.
Da quando il padre li conduceva a lavorare nella cava sotto il sole o con le intemperie. E non passava giorno che non ne magnificasse i pregi. E’ talmente morbida e tenera, diceva loro, che “si possono scolpire le unghia di un angelo”. Passarono gli anni e per decenni non se ne parlò più. Gli Scalisi si dedicheranno esclusivamente alle costruzioni, lasciando un segno tangibile nell’edilizia cittadina. Fino agli inizi degli anni ’90, quando, forse perché sedotti dal fascinoso richiamo della “pietra che canta”, cominciano a dedicare gran parte del loro tempo di pensionati a modellare la dolce pietra. Ma stavolta con maturità e consapevolezza e sulla scia dei maestri Mastru Turi Varvuzza e Raffaele Maltese. Ed è il più piccolo, si fa per dire, l’ottantenne Giuseppe, ad emergere per squisitezza del tocco dello scalpello, l’ispirazione e la varietà dei soggetti scolpiti. Una sua opera si trova persino a Toronto, fa lui donata alla comunità dei salemitani-canadesi devoti di San F,sco di Paola. Molte delle sue opere si trovano in esposizione in un locale situato nei pressi della centralissima Piazza Libertà. Ma dalla Pro-Loco non viene più indicata ai turisti, lamenta. Come pure si è persa traccia di una antica delibera comunale che prevedeva l’apertura di un museo presso il Collegio. Ma si sa, “nemo profeta in patria”. Nessuno viene mai apprezzato nella propria città, dicevano i nostri progenitori latini. E Salemi non poteva fare eccezione.
Franco Lo Re