Il latte fresco di mucca, ai tempi in cui mio padre era bambino, praticamente non esisteva a Marsala. Perciò il nonno Totò, avendo figli da sfamare, aveva deciso di tenere una bella capra da latte in giardino, nella vecchia casa bassa di tufo – che fu poi demolita alla fine degli anni Sessanta – all’angolo tra viale Fazio e via Crispi, a pochi passi dalla Stazione. Ogni mattina donna Pippina, la cammarera, andava a mungere la capra, e poi bolliva il latte per darlo ai picciriddi cchiù nnichi, come Aurelio ed Ernesto. Ma una mattina la capra non ci fu più. Niente, era scomparsa nel nulla. Rubata, per quanto è vero Dio. E infatti, come avrebbe mai potuto scappare da sola, chiusa per com’era nel suo recinto, e col giardino protetto da un muro alto due metri?
Nonno Totò ebbe un attacco di rabbia furiosa. Perché oltre tutto, amando gli animali, si sentiva affezionato alla capra che tutti chiamavano Barbuta. Uscì di casa incazzato nero, dirigendosi come al solito verso la Florio, dove svolgeva il compito di direttore commerciale nel reparto Brandy. Lungo la strada, passando davanti a un caffè, vide il giovane Nedd’Anselmi che chiacchierava con un amico. Anselmi era un mafioso. Lo conoscevano tutti a Marsala. Si sapeva bene che era uno di grandi ambizioni, destinato a ruoli importanti. Robusto, aitante, nascondeva la sua indole feroce sotto un’aria di eleganza, ed era cerimonioso con tutti. Soprattutto con le persone di rispetto che non erano in affari con lui. Perciò, quando anche lui vide mio nonno, lo salutò con deferenza, e gli chiese: «Don Totò, che avete stamattina? Vi vedo di malumore». Il nonno gli raccontò l’accaduto. Il mafioso lo rassicurò all’istante: «Tranquillo, don Totò. Godetevi la bella giornata e abbiate fiducia. Il problema è già risolto». E non aggiunse altro.
La mattina successiva, di buon’ora, una mano forte andò a tuppuliàre al portone di viale Fazio. Donna Pippina corse ad aprire. Domandò chi fosse. Rispose la voce di un picciotto: «Amici». Pippina aprì, e comparve un giovane che conduceva la capra Barbuta legata a una cordicella. Non ebbe tempo di far domande, che il ragazzo salutò e sparì, senza dire una parola.
La sorte di Nedd’Anselmi fu materia di leggenda nella mia famiglia. Dissero che emigrò in America, si stabilì a Chicago e si aggregò alla banda di Al Capone. Dissero – e mio cugino Antonio, buonanima, lo giurava – che lui fu proprio quello che Al Capone assassinò di sua mano con un colpo di mazza da baseball sulla testa, durante un consiglio dei suoi fedelissimi, perché convinto che Anselmi lo avesse tradito. E dissero pure che Al Capone lo rispedì in Sicilia a sue spese, rinchiuso in una bara laminata d’oro.
I testi di storia dicono che Nedd’Anselmi, al secolo Alberto Anselmi, nacque a Marsala nel 1883, entrò clandestinamente negli Stati Uniti nel 1924 e morì a Chicago il 7 maggio del 1929. Fu uno dei killer più spietati della gang di Al Capone, e fu quasi sicuramente uno dei massacratori nella strage di San Valentino del 14 febbraio 1929. Fu trovato morto, insieme a John Scalise e a Joseph Giunta, massacrato da colpi di bastone e finito a raffiche di mitra, in una strada nei pressi di Hammond, nell’Indiana.
In quanto alla storia della capra, posso metterci una mano sul fuoco, perché non solo mio padre, ma tutti i miei parenti stretti me la raccontarono così, senza varianti di rilievo. E senza mai minimamente accennare all’ipotesi che il nonno avesse dovuto pagare un pizzo per riavere la bestia rapita. Del resto, si sa: l’antica pratica mafiosa delle “restituzioni miracolose” fa parte, per così dire, del folclore siciliano. A tal punto, che persino Joseph Bonanno nella sua compiaciuta autobiografia vi dedica una pagina di accurata descrizione.
Pallottole vaganti
Nel 1953 mio padre ebbe l’idea balzana di candidarsi al Senato per la Democrazia Cristiana. Girò le città e i paesi della provincia di Trapani per esporre alla gente i suoi programmi e le sue idee. Ogni volta che entrava in un borgo, prima di salire sul palco del comizio era obbligato a bussare a due porte: chidda du parrinu, e chidda du patrinu. Il prete e il padrino. Chiesa e Mafia. In silenzio, doveva ascoltare le raccomandazioni delle due autorità, che con garbo e benevolenza, offrendogli acqua e zammù, gl’indicavano soprattutto ciò che “non doveva dire”. Mio padre faceva finta di ascoltare, ma poi diceva sempre quello che gli pareva. Le prime tre volte gli andò bene. La quarta volta, uscendo da Gibellina dopo il comizio insieme a due compari che lo accompagnavano, udì il colpo assordante di uno sparo, e un fischio di pallottola che andò a tranciare il fogliame di un albero lì vicino. I compari si gettarono a terra. Mio padre restò in piedi, un po’ inebetito, poi chiese a quei due come mai si fossero buttati giù in quel modo. Uno rispose: «Voscienza unnu sapi? Ca nna sti bbanni i scupettàti ‘un si sapi di runni vennu e unni vannu a finiri».
Da quel giorno mio padre stette un po’ più attento, nei comizi, a quello che diceva.
Una bistecca indigesta
Il giorno in cui tenne il comizio a Paceco, tirava tramontana e pioveva a dirotto. Poco dopo mezzogiorno, quando finì di parlare, gli si avvicinò un uomo che lo aveva ascoltato, e lo invitò a ripararsi un poco a casa sua. Mio padre accettò. Le donne di casa stavano preparando il pranzo, e naturalmente lo costrinsero a fermarsi con loro a mangiare, aggiungendo un piatto sulla lunga tavola che già doveva nutrire una decina di persone tra genitori, figli e anziani. Era domenica, e dopo la pasta busiata c’erano perfino le bistecche con la salsa. Erano già contate: una per ogni commensale. Ma quella per mio padre non era stata prevista. Quando venne il momento di servirle, dopo aver distribuito una bistecca a ciascuno incominciando dall’ospite, la padrona di casa passò col vassoio vuoto accanto al patriarca della famiglia, e disse: «Al bisnonno niente carne, picchì cci fa mmale». Credeva di aver chiuso l’argomento, ma il vecchio reagì, a sorpresa: «Sì, mi fa mmale picchì ‘un mi nni runanu».
«Quella bistecca non mi andò né su e né giù», diceva sempre mio padre rievocando l’episodio. «E ancora adesso, dopo tanti anni, non l’ho ancora digerita».
Un cappotto mai visto
Quando arrivò per il comizio a Salemi, una folla di picciotti sbrindellati si fece attorno a suo cognato Danilo, che lo seguiva nei giri di piazza come uno scudiero. Danilo era un giovane alla moda, e indossava un montgomeryverde nuovo di zecca. I picciotti di Salemi non avevano mai visto un cappotto come quello in vita loro. Ne furono abbagliati. Cominciarono a toccarlo, a lisciarlo, a scambiarsi commenti. Danilo era frastornato. Non capiva se i ragazzi lo invidiassero davvero, o se si stessero solo divertendo. Finalmente uno gli disse, ridacchiando: «Beddu ‘stu cappottu! Quannu cci figghia, mi nni runa unu?». E allora lui capì che lo stavano prendendo ferocemente per il sedere.