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18/09/2012 14:48:27

Note sull’Ultima Cena

  Secondo la versione degli evangelisti, l’Ultima Cena si svolse nel primo giorno della festa di Pasqua, detta anche “gli Azzimi” (cfr. Mt 26,17; Mc 14,12; Lc 21,7-8) e fu l’occasione per Gesù per tentare di far capire ai suoi discepoli in cosa consisteva veramente la Pasqua da celebrare. Insieme a Paolo essi presentano, infatti, la cena di Gesù come la celebrazione della Nuova Alleanza con Dio, alleanza già proclamata nelle “Beatitudini” e già annunciata dal profeta Geremia: [31] “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. [32] Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. [33] Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. [34] Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. (Ger 31,31-33). L’alleanza antica era basata sulla legge scritta, esterna all’uomo; la nuova è scritta in ogni persona, nel proprio “cuore”. Nella Nuova Alleanza, l’adesione a Dio non avviene attraverso l’accoglienza di un codice di leggi da osservare, ma attraverso l’assimilazione della sua stessa persona, della sua stessa fonte di vita. La nuova relazione con Dio si basa su di un’esperienza profonda, diretta e immediata che il credente vive nel suo intimo, che non è un’esperienza arbitraria e volubile, ma è l’esperienza del cuore invaso e compenetrato dall’amore fedele di Dio, è l’esperienza di chi sente perdonato e amato. Questa è la novità già annunziata dai profeti, che Gesù farà sua. Non c’è un perdono che arriva dopo il pentimento della persona, Dio perdona prima e il pentimento è eventualmente la conseguenza di questo perdono. Nell’antica alleanza, per ottenere il perdono dei peccati era necessario recarsi al tempio; ora esso si ottiene con l’adesione a Gesù, che è il vero santuario di Dio. Il gesto di Gesù che “spezzò” il pane, è la sintesi della sua vita spezzata per gli altri. Questo avviene dopo la “benedizione”; è quest’ultima che consente al “pane” di essere spezzato e condiviso. L’espressione di Gesù “questo è il mio corpo” presenta nell’originale greco la mancata concordanza nel genere fra “questo”, di genere neutro, e il sostantivo “pane”, di genere maschile. Ciò indica che “questo” non è riferito solo al “pane”, ma a tutta l’azione che lo precede e l’accompagna: la “benedizione”, lo “spezzare”, il “prendere”, il “mangiare”. Il “corpo” del Signore è la comunità dei credenti che prende il “pane”, lo benedice, lo spezza e si fa “pane” per gli altri (cfr. 1 Cor 12,27 e 10, 16b). Il significato della Cena non si concentra, dunque, soltanto su un “pane”, ma su una comunità che si spende per gli altri. Gesù crea la catena dell’amore nel servizio: prendendo il suo “pane”, la comunità si assimila a lui, e, con la sua opera di servizio verso tutti, attualizza la presenza di Gesù nel mondo. Con l’invito a prendere il “pane” che è il suo “corpo”, Gesù invita a somigliargli, ad accettare la sua persona come norma di vita. Ma mangiare il “pane” non basta: non si può accettare la vita di Gesù senza accettare la sua morte. La vera accettazione del “pane” si vede soltanto nel bere il “calice”, ossia nel dichiararsi pronti, come lui, a dare la propria vita per gli altri, anche se comporta una prova, magari dolorosa, da affrontare (cfr. Mt 20,22; 26,39). Nessuno può porre un limite alla propria donazione; ma, come Gesù, bisogna sapersi donare fino in fondo. Il contenuto del calice è rivelato nella maniera più urtante per un ebreo: il “sangue” nel mondo ebraico è la vita. Esiste la proibizione assoluta di bere sangue (Gn 9,4-6; Lv 17,10-14 ; Dt 12,16.23), e nessun ebreo lo avrebbe fatto neppure simbolicamente. Il sangue è simbolo di quella Vita cui Gesù dà accesso. L’insieme del “pane” e del “calice” illustra l’invito che Gesù ha rivolto ai discepoli in precedenza: “Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ». (Mt 16,24). Assimilare il “pane” significa rinunciare a “sfruttare” gli altri, e, al contrario, farsi vita per loro; il “calice”, rappresenta la disponibilità a rovinare il proprio buon nome (la croce) pur di dimostrare fino in fondo l’amore per l’altro. La persecuzione fa parte dell’orizzonte della vita del credente, è inevitabile per chi ha scelto Gesù come modello di vita. Durante l’Ultima Cena Gesù non si limita però ad alludere alla propria morte. Egli prospetta il trionfo su di essa con un’immagine di pienezza di vita e d’allegria simboleggiata dal vino, che è “nuovo”, cioè di una qualità finora sconosciuta. Il vino è simbolo dell’amore tra gli sposi (cfr. Ct. 1,4 ; 4,10 ; 5,1 ; 7,10 ; 8,2). Questo frutto della vite, dice Gesù, è di qualità differente e migliore, è l’amore che lui dimostra con il dono della sua vita e che per ora però i discepoli non sono capaci di avere, perché non sanno fino a che punto arriverà l’amore del Signore. La triste immagine della morte alla quale Gesù va incontro, è quindi come annullata dall’immagine dell’amore che richiama le nozze, e quindi la fecondità. Il desiderio di Gesù è avere l’unione più intima possibile con i suoi, per dar loro la pienezza della vita nella dimensione della gioia e della festa. Alle parole pronunciate da Gesù durante la Cena Paolo e Luca aggiungono “Fate questo in memoria di me”. Il verbo “fare” è un verbo concreto: non riguarda solo il pensiero o il dire. Il concetto biblico di “memoria” indica comprensione, attualizzazione e personalizzazione: è comprendere il senso ora e per me. La “memoria” che Gesù chiede si fa con la vita. Non è un isolarsi nel passato, ma un proiettarsi verso il futuro attraverso una realizzazione nel presente. Il “fate questo” corre però il rischio di essere ridotto a una scrupolosa esecuzione della cerimonia, mentre è il banco di prova del servizio che il cristiano è disposto a fare per i fratelli. Il rischio che si corre – rischio in cui anche la comunità cristiana di Corinto era incorsa (cfr. 1 Cor 11,17 sgg.) – è che il “fare” del rito faccia dimenticare l’azione da cui era stato preceduto il rito di Gesù. La “memoria” che Gesù chiede può abbracciare senz’altro anche la celebrazione del rito, ma non è l’aspetto più importante. Se Gesù ha donato la sua vita per gli altri, non può chiedere ai suoi discepoli di compiere dei semplici riti. Nei secoli, invece, si è enormemente ritualizzato il gesto di Gesù, caricandolo di tutto un apparato religioso, liturgico e di norme precise che lo regolano. Ma Gesù non ha istituito alcun rito sacro, né tantomeno un sacramento, cioè egli non ha istituito nessun rituale per mezzo del quale si comunica la grazia, il favore di Dio, l’amore di Dio ai mortali. Quella che Gesù ha celebrato è stata una cena d’addio, e un individuo che cena con gli amici per congedarsi da loro non fonda un rituale. L’atto centrale di Gesù, che ripete più volte nei vangeli, è quello di mangiare insieme con gli altri, di condividere la tavola, poiché le persone che mangiano insieme, misteriosamente, si sentono più unite. Condividere la tavola è condividere la vita. La Cena di Gesù è, dunque, piuttosto un banchetto di persone in comunione tra loro, rivolte a fare propri i suoi propositi. Non basta, infatti, rinnovare i simboli del “pane” e del “vino” senza ripetere sul piano storico ciò che essi significano. Purtroppo, però, il più delle volte, la fedeltà ai rituali occupa il posto della fedeltà a Gesù e il rituale finisce per sovrapporsi alla vita. Chissà, forse è proprio per evitare questo che l’evangelista Giovanni non riporta, curiosamente, l’”istituzione” della Cena. E’ interessante, inoltre, notare che per l’autore del quarto vangelo non si trattò di una cena pasquale (cfr. Gv 13,1.29). Stando a Giovanni, infatti, quell’anno la Pasqua cadeva di sabato (cfr. Gv 19,31). Egli, che scrive per ultimo il suo evangelo, sembra voler correggere gli altri evangelisti: la cena che Gesù condivise con i suoi fu una cena normale, della quale, attraverso l’episodio della “lavanda dei piedi” l’evangelista presenta il significato profondo. La celebrazione della Cena è quindi il momento in cui la comunità cristiana è chiamata a confrontarsi con l’amore del Cristo, per attuarlo nella propria vita. Non ha senso, allora, partecipare alla Cena se poi non ci si “lascia mangiare dagli altri”. La partecipazione ad essa non è un atto di devozione, ma una prova di coraggio, una decisione presa davanti agli altri di “darsi” per tutti, come Gesù. E’ l’affermazione di voler vivere come Gesù è vissuto, di fare come lui ha fatto, perché si è compreso che non esiste altra possibilità di diventare persone pienamente riuscite, se non come lui ha mostrato.  

Violairis - 18 settembre 2012 - da www.chiesavaldesetrapani.com

   



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