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24/07/2012 13:34:37

Nel regno di Donna Bisòdia (Seconda parte: storie di stravaganti della Marsala che fu )

Ai tempi dei tempi, e non meno di cent’anni fa, il farmacista Bertolino ebbe la peggiore disgrazia che può capitare a un padre: gli morì per malattia un amatissimo figlio adolescente. Tutta Marsala partecipò al lutto. I genitori erano inconsolabili. Ma Bertolino non volle arrendersi del tutto alla sventura. Decise, in quattro e quattr’otto, di mettere a punto la “formula magica” di un liquido diafano come l’acqua e capace di mantenere intatto il corpo del suo figliolo. Pensò di immergere il cadavere in un tabbùto colmo di quel liquido e chiuso da un coperchio di cristallo, in modo che la mummia si potesse vedere per sempre. E tanto fece, che in capo a due o tre giorni riuscì nell’impresa.

Dopo le esequie, l’inconsueta bara fu tumulata nel cimitero di Marsala. Il farmacista sembrava soddisfatto della sua invenzione, e ogni giorno, da solo o in compagnia della moglie, andava al camposanto a contemplare il corpo del figliolo immerso nella teca trasparente. Ma dopo circa un mese la situazione cominciò inaspettatamente a degenerare. Dal magico tabbùto, per quanto ben sigillato, prese a effondersi il tanfo insopportabile della putrefazione. Che fare? Bertolino non si diede per vinto. Mise a punto una nuova formula chimica, più potente e perfetta della precedente. Poi corse al cimitero a fare il cambio dei liquidi. L’operazione riuscì anche stavolta, ma il problema del tanfo si ripropose di nuovo in capo a meno di due mesi. Bertolino allora prese una solenne decisione: regolarmente, ogni quaranta giorni avrebbe effettuato il cambio del liquido nella bara.

I marsalesi dovettero imparare a convivere con quel terribile rito. Ogni quaranta giorni, quando vedevano passare il farmacista che si recava al cimitero con la botte del liquido caricata su un carretto trainato da un asino, gli abitanti delle case vicine si preparavano a sopportare il tanfo della bara scoperchiata, che non di rado il vento trascinava per centinaia di metri verso il centro cittadino. E allora, se qualche ignaro o finto ignaro rivolgeva a un altro la domanda: «Matri mia, socch’è ‘stu fetu?», l’immancabile risposta, divenuta col tempo proverbiale, era sempre la stessa: «È ‘u farmacista Bertolino chi cancia ‘a salamòra a sso figghiu».

 

L’asino del barone Barraco

Ai tempi dei tempi, e non meno di ottant’anni fa, il barone Barraco era famoso in tutta la provincia di Trapani per la sua indole sincera e cordiale e per la sua incredibile forza muscolare. L’esuberanza fisica lo conduceva talvolta a prendersi cura personalmente dei lavori campestri, e si diceva che un giorno, in gioventù, infuriato con un bue che non voleva saperne di trainare l’aratro, gli avesse scaricato tra le corna un pugno tale da spaccargli la scatola cranica, uccidendolo all’istante.

Capitò invece un’altra volta, quando il barone aveva ormai passato la quarantina, che una sera un asinello di taglia mediana gli s’impuntasse sulla soglia della stalla, rifiutando di entrarvi. Barraco tentò di spronarlo in tutte le maniere: con il richiamo della biada, con urla, con fischi, con nerbate e legnate, ma quello niente, sembrava una statua, non batteva ciglio e non ragliava nemmeno, insensibile anche al dolore. Alla fine il barone, esasperato, sentendosi ferito nell’orgoglio da quella bestiaccia insolente, si tolse la bunàca di fustagno, si rimboccò le maniche della camicia, afferrò l’animale sotto la pancia e con uno sforzo sovrumano lo sollevò di peso e lo scaraventò nella stalla, esclamando con un grido di trionfo: «Sceccu cornutu, per intelliggenza mi vinci, ma per forza no!».

 

Barraco e la letteratura

Un’altra caratteristica del barone Barraco era la disarmante ignoranza. Una domenica capitò a mio padre, che da poco tempo si era laureato in ingegneria civile e aveva aperto un’impresa di costruzioni a Marsala, di incontrarlo a Porta Mazara mentre chiacchierava in un crocchio di uomini di rispetto e con tanto di coppola. Il barone era assai bene allicchittato per la giornata di festa, e appena riconobbe mio padre lo prese a braccetto e volle trascinarlo a tutti i costi lungo il Cassero per discutere con lui – che aveva passato cinque anni a Roma per gli studi universitari – di questioni importanti. Di buon grado, mio padre accettò.

A un certo punto la conversazione, non si sa bene per quale incastro di ragionamenti, andò a fissarsi sulla grandezza poetica di Dante Alighieri. A bocca aperta, l’anziano barone ascoltava il giovane ingegnere che disquisiva sapientemente sui vari personaggi della Divina Commedia, citando a memoria terzine e versi esemplari. Andarono su e giù per il Cassero almeno quattro volte, mentre il barone mostrava di appassionarsi sempre di più all’argomento. Ma all’improvviso si fermò, e con aria di grave dubbio chiese a mio padre: «Ma, ‘ncignèri meo, scusassi, ‘stu Dante Alighieri di runn’era? Era maissalisi?». E il discorso ebbe fine così.

 

Barraco e la quaglia morale

Un giorno il barone Barraco andò a caccia con un suo amico nella campagna di Petrosino. La giornata era magra, ma ad un tratto i due videro nello stesso istante una quaglia che s’era levata in volo da una fronda di carrubo. Esplosero due botti contemporaneamente, e la quaglia colpita precipitò a terra come una petra. Ora si doveva stabilire da quale delle due scupette fossero partiti i pallini mortali. La discussione fu lunga, ma il barone era un prepotente incapace di mollare, e alla fine senza tante storie acchiappò da terra la povera quaglia e se l’infilò nel carniere, proclamando che era sua. L’amico, scornato ma non vinto nell’animo, dopo qualche attimo di riflessione disse a Barraco: «’A quagghia vera t’a pigghiasti tu, ma chidda morali è mia, per quanto è vero Dio!». Il barone lo taliò alluccuto, e ‘un ci seppi chi rispunniri. Una faccia di fissa come quella sua di quel momento non s’era mai vista nei campi tra Marsala e Petrosino.

 

Due anime e due stomachi

Confesso di non ricordare i nomi dei protagonisti di questa vicenda di sapore pirandelliano. Mio padre, a suo tempo, li disse e li ripeté varie volte, ma nella mia memoria sono purtroppo svaniti. La storia comunque è questa, e posso giurare – come giurava mio padre – che è assolutamente vera.

Una tarda sera d’inverno il guardiano della Florio fu aggredito da due rapinatori che cercavano di penetrare nello stabilimento deserto. Oppose resistenza, gridò aiuto e ricevette da uno di loro una coltellata al petto che lo stese a terra agonizzante in un lago di sangue. Poco dopo, accorso alle grida della vittima, giunse davanti al portone della Florio un pover’uomo che si trovava a passare in quei paraggi, e che per caso era anche un amico dell’aggredito. Quando lo riconobbe, e lo vide negli spasmi della morte imminente, il disgraziato rimase paralizzato dallo spavento, e gli parve che il guardiano, nell’esalare il suo ultimo respiro, gli sputasse in faccia la sua anima, con tale violenza da cacciargliela in corpo attraverso la bocca, che lui aveva spalancata alla vista di quella scena terrorizzante.

Passarono alcuni giorni, e per Marsala si diffuse la voce che il pover’uomo che aveva assistito alla morte dell’amico ne aveva inghiottito l’anima, sicché ora si portava appresso non una ma due persone, la sua e quella del defunto guardiano della Florio. Il disgraziato, però, non doveva essere del tutto un cretino. A poco a poco, abituatosi all’idea di possedere due anime, pensò bene di approfittarsene per porre un rimedio alla sua atavica condizione di morto di fame. In giro per la città c’erano delle brave donne, che quando lo vedevano apparire sulla soglia delle loro case gli allungavano una fetta di pane, un grappoletto di racina, un uovo sodo, una sarda salata. Lui finora aveva sempre campato così. Ma adesso basta con quei miseri pasti: se in lui c’era un altro, anche quell’altro poteva ben pretendere i suoi diritti. Perciò le brave donne dovettero abituarsi a dargli ogni volta due pani, due grappoletti di racina, due uova sode, due sarde salate. E se protestavano per quelle richieste raddoppiate, lui piagnucolando le rimproverava: «Signura mia beddra, chi cci pozzu fari? Pur’u guardianu, mischinu, avi fami!».

 

L’ultima pratica del ragionier Pipitone

Nel settore amministrativo delle poste centrali di Marsala lavorava verso la fine degli anni Trenta un impiegato modello, che in quarant’anni di onorato servizio non aveva mai commesso un errore, una mancanza, né tanto meno uno sgarbo o una prevaricazione nei confronti di chicchessia. Sempre ordinato, preciso, irreprensibile, saggio nelle decisioni e moderato nel parlare, zelante e competente, il ragionier Pipitone (Dio mi perdoni se ricordo male il suo nome!) era arrivato ormai agli ultimi fatidici giorni del suo lavoro, e insieme ai colleghi si preparava a festeggiare con un brindisi la sua entrata in pensione. Molti pensavano che un uomo così virtuoso non si sarebbe mai più visto in quell’ufficio, e la fama della sua onestà si era diffusa ormai da tempo a Marsala come una leggenda.

Ma proprio nell’ultimo giorno del suo lavoro qualcosa andò storto. Anzi, stortissimo. Per dirla tutta: fu uno scandalo, un dramma, una vera pazzia. Era la fine di luglio. Infuriava un caldo sciroccoso, e nell’ufficio amministrativo i sudori colavano a rivoli dai colli e dalle fronti di tutti gli impiegati, compresa l’unica donna che lavorava nello stanzone dell’archivio, una signora trentenne, nubile, seria e di aspetto fisico non del tutto trascurabile. Di cognome, si chiamava Petitto (e Dio mi riperdoni se anche questo nome non fosse quello vero!). Da qualche mese, alla donna era stato assegnato il compito di catalogare e archiviare le pratiche che il ragionier Pipitone, dopo averle esaminate e vidimate, le passava, adagiandole i fascicoli sulla scrivania. E in quel meccanismo di trasmissione era sempre filato tutto liscio come l’olio.

Anche quella mattina le cose si erano svolte alla perfezione. Fu verso le due del pomeriggio che accadde l’irreparabile. Mentre si rinfrescava con dei vezzosi colpetti di ventaglio, la signora Petitto, madida di sudore, ebbe la malaugurata idea di slacciarsi il bottone più alto della camicetta di cotone, scoprendo così un centimetro e mezzo, o forse due, del suo bianco e delicatissimo collo. Dopodiché, con una vocina resa più dolce dalla sofferenza del caldo, chiese per cortesia al ragioniere di passarle una certa pratica che giaceva da ore sul bancone davanti a lui. Pipitone non si fece attendere. Ma stavolta preparò per la Petitto una sorpresa. Invece di prendere la pratica giusta, si slacciò accuratamente la patta dei pantaloni, ne estrasse il contenuto, e voltatosi di scatto verso la signora le spiattellò rudemente sulla scrivania quel pezzo recondito di anatomia umana, che nel frattempo per la fantasia si era anche piuttosto risvegliato dal normale letargo delle ore di ufficio.

Possiamo immaginare la reazione della donna. Furono scene da pazzi. E infatti il povero Pipitone, quella stessa sera, fu trasferito nel manicomio di Trapani dove poi fu costretto a passare il resto della sua vita terrena. Senza riuscire a godersi nemmeno un’ora della meritata pensione.

POSCRITTO: In questi, come in altri racconti che vado pubblicando da mesi nella rubrica “Arriva Garibaldi!”, potrebbero essere contenute delle inesattezze, dovute, in assoluta buona fede, a qualche mancanza della mia memoria o delle fonti (scritte e orali) che a suo tempo mi trasmisero le vicende qui narrate. Se per caso qualche avveduto lettore dovesse rilevare uno o più di questi errori, gli sarò grato se vorrà comunicarmi la sua rettifica e le sue osservazioni, scrivendomi una mail attraverso la pagina “Contatti” del mio sito internet: www.massimojevolella.it  Grazie.

 

 

 



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