In relazione all'uxoricidio recente di Maria Nastasi, che ha gettato nell'orrore Trapani, non possiamo non avviare una riflessione sulla piaga del femminicidio.
Quando una donna viene selvaggiamente picchiata, stuprata o uccisa, si scatena la teoria del dramma della gelosia, che traveste i nostri uomini in Otelli dell'ultima ora. Che vengono condannati a non più di dieci anni di detenzione. Ma sono storie di straordinaria follia: una donna su tre – in una età compresa tra i 16 e i 70 – è stata vittima di violenza; il 35% delle vittime non presenta denuncia; 63 le donne uccise da maggio a giugno di quest’anno. Il 13% aveva chiesto aiuto per stalking, oltre il 63% aveva già sporto denunce rimaste inascoltate.Inadempienze che contribuiscono al silenzio delle vittime e a lasciare che il fenomeno resti invisibile. D’altronde il “diritto” degli uomini a picchiare le donne non è arcaico. È storia dei nostri nonni. Ce ne siamo dimenticate, la legge che lo ha abrogato è solo degli anni Settanta. Trentanni fa a un marito, un padre era consentito picchiare in quanto mezzo per “correggere” il comportamento delle donne, glielo riconosceva il codice penale e civile a patto che non ne abusasse. Ma il limite poche volte era stato chiarito lasciando nel dna della società e della cultura italiana l’abuso delle botte e la “disattenzione” ai diritti delle donne.
Il neologismo "femminicidio" balza alla ribalta internazionale a seguito dei fatti di Ciudad Juarez e il termine acquisisce una sua genesi come categoria concettuale politica, criminologica e giuridica. Con "femminicidio" si indicano gli omicidi della donna “in quanto donna”, ovvero gli omicidi basati sul genere, ovvero la maggior parte degli omicidi di donne e bambine. Non stiamo parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, stiamo parlando anche delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto o il controllo ossessivo sulle loro vite, sulle loro scelte sessuali, e stiamo parlando pure delle donne uccise dall’AIDS, contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività, delle prostitute contagiate di AIDS o ammazzate dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche…Se vogliamo tornare indietro nel tempo, stiamo parlando anche di tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo. La loro colpa è stata quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione, di essersi prese la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, di essersi sottratte al potere e al controllo del proprio padre, partner, compagno. Per la loro autodeterminazione, sono state punite con la morte. La loro condanna a morte è stata firmata dal singolo uomo che si è incaricato di punirle o controllarle e possederle nel solo modo che gli era possibile, uccidendole, ma anche la società non è esente da colpe. E neanche noi donne stesse, che spesso ci autocondanniamo a subire un rapporto che lede la nostra dignità come se fosse necessario: non c'è figlia di madre abusata che non consideri "normale" essere maltrattata. Ancora oggi, per molte donne, è più importante il ruolo di moglie, madre, fidanzata a qualsiasi costo, soprattutto a costo della propria dignità. E questo incide sul ruolo sociale della donna.
Il problema di fondo è che, prima che il termine femminicidio, a livello culturale in Italia si registra una grave difficoltà, sconosciuta ad altri Paesi europei, nel riconoscere la specificità della violenza maschile sulle donne come violenza di genere: il problema culturale si ripercuote sull’efficacia dell’azione istituzionale. L'Italia infatti, non solo non ha recepito le indicazioni delle Nazioni Unite in materia per arginare il fenomeno, ma è emblematico che all’Italia non sia stato chiesto di introdurre il reato di femminicidio. Ancora troppe donne vengono ammazzate perché manca una reazione collettiva e sentita a una cultura assassina, che riporta in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi, legati alla virilità, all’onore, al ruolo di uomini e donne nella coppia e nella società.
E allora davanti a una cultura così pervasiva da permeare anche talvolta quegli operatori che dovrebbero contrastarli, le Istituzioni hanno il dovere di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare, o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza maschile sulle donne. Per sconfiggere la cultura patriarcale occorre una presa di posizione netta da parte di tutti i politici ed i personaggi pubblici ed una collaborazione fortissima con la società civile.
Dobbiamo parlare di donne che da vittime si trasformino in soggetti politici artefici del cambiamento della realtà nel loro Paese.
Vale la pena elaborare un progetto comune per non svuotare le parole del loro significato e le azioni del loro scopo. Per non parlare di femminicidio con troppo leggerezza. Per riempire di significato anche parole come “pari opportunità” che altrimenti suonano vuote. E allora torniamo a ribadire la necessità di azioni rivolte a garantire in concreto alle donne, in quanto donne, il godimento dei loro diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto alla vita, ed a una vita libera da qualsiasi forma di violenza. In questo senso, le pari opportunità si costruiscono insieme, a partire dalle realtà locali, dai territori, altrimenti la disinformazione annulla i benefici derivanti dalle politiche intraprese; così come i servizi, la professionalità offerta dalle associazioni di donne, dai centri antiviolenza, dal volontariato, vengono vanificati se non possono essere portati avanti nel tempo per il mancato finanziamento da parte delle Istituzioni. E’ un cane che si morde la coda. Ed in questo periodo di tagli, non si può utilizzare l'attuale situazione politica ed economica dell'Italia come alibi per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese (Rashida Manjoo).
Valentina Colli
SEL Trapani