Eppure, fu esattamente questo ciò che avvenne a Mazara del Vallo nel primo pomeriggio di quel lunedì d’un secolo e mezzo fa. La dolcissima Madonna del Paradiso, patrona principale della città, perse di colpo le staffe e si mise a roteare gli occhi come una creatura impazzita. Come poté arrivare a quel punto? Cercherò di ricostruire la vicenda, con i suoi retroscena e con i particolari di quell’incredibile giornata, attingendo unicamente a un opuscoletto – pubblicato a Marsala pochi giorni dopo il memorabile evento – che sulla copertina di color verde chiaro reca su nove righe questo titolo: Il prodigioso movimento degli occhi della Madonna del Paradiso nel giorno 5 marzo 1866, descritto da Giuseppe Ingianni Arcidiacono della Cattedrale di Mazara.
Madonne dei miracoli, si sa, in giro per il mondo ce n’è di ogni tipo e colore: angosciate, serene, addolorate, piangenti, ridenti, velate e svelate, assunte, annunziate, bianche, nere, profetiche, materne, consigliere, inquietanti, consolatrici e colpevolizzanti. In un vicolo di Marsala ce n’è una, umile e sconosciuta, rozzamente dipinta in una sacra edicola vecchia almeno di due secoli, che mio padre da bambino cercava sempre di schivare, perché, diceva: «Mi facìa scantàri cu ddri occhi tunni e arraggiàti chi pparìa ‘na ddiavula». Quella famosa di Trapani, invece, è così candida e radiosa, che il frate carmelitano Gabriele Monaco, in un opuscolo a lei dedicato nel 1950, ebbe a dire di lei con molta poesia: «Chi la vuol vedere più bella deve andare in cielo». E in effetti, la venerata Madonna di Trapani, che lietamente scherza col Bambinello in braccio, ha un sorriso talmente largo e deciso da ricordare quello di certe Vergini scultoree di stile gotico-francese, come la meravigliosa Virgen Blanca della cattedrale di Toledo.
Una caratteristica però hanno in comune tutte queste Madonne: la coerenza. Nel senso, abbastanza ovvio, che nessuna ha mai cercato di tradire il suo carattere, e le ragionevoli attese dei suoi fedeli. Tutte: tranne quella di Mazara. Ma non senza un perché. Racconta infatti l’arcidiacono Ingianni nel suo esilissimo opuscolo che nell’inverno del 1866 la Sicilia fu afflitta da una tremenda siccità: «Era sino alla mattina del 5 marzo corrente ancora squallido e miserevole l’aspetto delle nostre campagne, appassito quasi ogni germe dei cereali, e gli alberi fruttiferi, e gli uliveti, e le viti in grado sommo sofferenti per l’arsura della terra da tre o quattro mesi non rinfrescata da gocciola di benefica pioggia». La causa di tutto ciò? Gli umani peccati, naturalmente. La corruzione, i delitti, la malvagità del popolo di Dio. Lassù, nel gran consiglio delle potenze soprannaturali, non doveva certo spirare un’aria di contentezza per le faide, gli ammazzamenti, gl’imbrogli e le ruberie che anche dopo la gloriosa svolta dell’Unità d’Italia continuavano a imperversare da un capo all’altro della Sicilia. Perfino la paziente Madre di Dio doveva averne piene le tasche della sua veste celestiale.
E tuttavia, era pur sempre lei l’unica, sicura, ed estrema speranza degli avviliti credenti. Mai nel passato la Vergine si era sottratta a una supplica dei suoi fedeli. Anche stavolta li avrebbe ascoltati. E fu così che gli angosciati mazaresi si decisero a scomodarla di nuovo. «Fu allora», scrive Ingianni, «che si ricorse all’ajuto celeste, per l’intercessione della Vergine augusta, la Madonna del Paradiso. Si supplicò la divina maestà offesa a sospendere i flagelli del suo giustamente irritato furore, ed esaudire le lagrime del popolo che implorava la sua misericordia». La notte fra il quattro e il cinque marzo trascorse così, nella cantilena infinita dei rosari e delle litanìe. Ma all’alba, niente. Ecco di nuovo il sole. Poteva dunque la Clementissima voltare le spalle al suo popolo? Colpo di scena: poco prima di mezzogiorno si alzò un vento improvviso da occidente. Rapidamente il cielo si gremì di nubi, bianche, poi grigie, poi scure. E fu il portento: «All’una pomeridiana istantaneamente si aprirono i cieli, e cominciò dirotta pioggia stupenda, che raccese le speranze e fece rinascere il sorriso nelle meste fronti».
Lo scroscio fu breve, ma la gioia esplose senza freni: «Il lieto suono delle campane si unì al festevole grido di gioia di tutti i cuori, e la lagrima era pianto di allegrezza. L’affollamento del dopo pranzo del giorno 5 nel tempio della Cattedrale era imponentissimo, per ringraziare l’augusta madre e regina del Paradiso. La calca era così densa, che invase il presbiterio, ed era non meno meraviglioso che commovente, quel mescolamento di sacerdoti e di gente di ogni condizione ed età. Ciascuno dei fedeli, memore del beneficio ricevuto, eccitato a maggiore speranza di altra pioggia, che ancor dovea pure succedere a quella ricevuta, eccitato dalle calde e fervorose parole del Pastore, che nuovamente predicò per eccitare e confermare la gratitudine, era ciascuno in quel momento intento a sfogare i santi affetti del cuore, e inginocchiato attendeva, dopo il canto del Genitori Genitoque, la benedizione del Santissimo». Si era creata, insomma, un’atmosfera di sospensione irreale. Il miracolo della pioggia aveva predisposto gli animi all’attesa di un nuovo prodigio. Gli sguardi erano tutti rivolti verso il viso soavissimo della Vergine, rapita come sempre nella contemplazione delle sfere celesti. E fu allora che, all’improvviso, ebbe luogo la visione tremenda.
Scrive Ingianni: «Un grido inesprimibile di tutto un popolo interruppe la sacra funzione. E chi fu presente, e scrive queste parole, dal coro guardando il centro della nave di mezzo del gran tempio, vide come una montagna di teste e di facce gradatamente elevata, che mettea continuato grido di sacro terrore e di pietà». Ebbene sì, la Madonna del Paradiso roteava gli occhi con furia paurosa, e in modo speciale muoveva: «la pupilla dell’occhio manco in modo, che spingendola su lasciava vedere intiero il bianco dell’occhio, e poi grado grado sempre sensibilmente lo rimetteva al suo posto». A questo punto, il racconto dell’arcidiacono s’infittisce di lacrime e ansie, di sacri terrori, fragori e mugghii di popolo, capelli irti e svenimenti. La cattedrale di Mazara è più simile a una bolgia infernale che a un’anticamera del paradiso. Perché?
Con grande prudenza, Ingianni non s’avventura nell’interpretazione del prodigio. Si limita a osservare, come cosa del tutto scontata, che l’intento della Madonna poteva essere solo quello di guidare i suoi figli per le difficili strade che conducono al paradiso. Eppure un dubbio è lecito: se è vero che, normalmente, il roteamento degli occhi è indice di rabbia e di squilibrio degli umori, e se quell’atto generò nel popolo di Mazara un moto di terrore, come potremmo escludere che l’augusta Vergine – una volta espletato con la pioggia il suo dovere di materna soccorritrice – vi si fosse abbandonata con il preciso intento di spaventare i fedeli? Troppo dolce il suo viso. In che altro modo, allora, avrebbe potuto esprimere la sua collera, e lanciare un avvertimento chiaro a quel gregge di miseri peccatori?