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15/06/2012 11:21:05

Un ribelle nel pentagramma di Claudio Forti. “QuasiDo” al “Baluardo Velasco”

 

Una chiusura in acuto di “do”, c’est à dire  in bellezza. Si allude all’ultimo spettacolo teatrale che  il “BaluardoVelasco” (nuovo spazio culturale marsalese nato pochi mesi fa per iniziativa di Claudio Forti, Paolo Navarra, Peppe Porcelli e Salvo Ciaramidaro) ha offerto al pubblico marsalese il 3 giugno 2012. I precedenti, portati avanti con successo e partecipazione, non tutti hanno avuto gli stessi esiti (non così è stato, purtroppo, e non certo per demerito della compagnia teatrale, per la messa in scena – aprile 2012 – de “Le sedie” di Ionesco ad opera dei G.O.D.O.T di Siracusa).  

Siamo nel tardo pomeriggio della prima domenica del mese di giugno, e l’incipit sul palcoscenico del “BaluardoVelasco” è un soffio d’aria fresca: lo shock di una sberla scagliata fra le poltrone occupate, e in attesa di far scattare le soglie delle percezioni e dei percetti che dall’estetico (aisthesis) dell’oscuro e dell’altra luce, si proiettano verso la consapevolezza fenomenologica filtrata artisticamente. La nota musicale “si” – impersonata dall’attrice Diana D’Angelo (protagonista doc) –, dopo un po’ di stiramenti e sbadigli, che accompagnano il suo risveglio di agitatore sociale e politico, allora, insospettita, stropicciandosi gli ammiccamenti si alza e, decisa, comincia a dar voce e corpo alle diverse articolazioni delle “maschere” che il copione letterario, prodotto dallo scrittore Claudio Forti, prevede. Lo fa con provata bravura. Le variegate movenze ad hoc, che la proposta teatrale impone all’attrice di concretizzare, ne mostrano poi il controllo che, via via, nel crescendo dell’azione scenica, si riversa nel dominio espressivo offerto al pubblico in sala. Diana infatti deve dare identità a diversi personaggi, e lo fa espressivamente comunicativa variando contemporaneamente la flessibilità corporea, visuale e vocale con l’immediata destrezza che gli è propria. La sua polimorfa trasformazione – che autore dell’opera da una parte, e il regista dall’altra le hanno chiesto per la resa artistica davanti la platea – allora tra-duce efficacemente il potenziale significante di cui è portatrice. Così tra sorpresa, provocazione, insinuazioni e allusioni, ironizzante (in questo gioca anche, a volte, in taluni passaggi di sberleffo, qualche gestualità piegata al vezzo umoristico sicilianizzante), la plastica polifonia di Diana cangiante – la nota “si” per tutta la durata della sua performance plurivoca deve dare voce e carattere a tutte le altre note sorelle –, apostrofando e coinvolgendo brechtianamente il pubblico si fa voce, corpo e modi recitativi che impongono distanza critica. Un’attenzione vigile e una presa di posizione intellettualmente consapevole per impedire allo spettatore l’immedesimazione alienante. Non mancano gli spunti lì dove la voce re-citante invita il pubblico al confronto e al parallelo tra il mondo degli “umani/voi” e quello della logica astratta e formale del “noi/note”.

Allo spettatore insomma si chiede un ruolo anche di lettore tra le “note” (leggere tra le righe) per inchiodarlo alla dovuta distanza disestetizzante. Gli si impedisce, infatti, di sedersi nel solito godimento distensivo, consolatorio e consumistico, come vuole il diffuso calmiere del mercato del consenso acritico odierno, allorquando, entrato in gioco il consueto scambio commerciale d’equivalenti (qui la piazza è la produzione teatrale!) tra l’offerta e la domanda del piacere soporifero quotato in borsa, le parti contrattuali si propongono la massima condivisione (ciascuno per parte propria) del profitto: l’asta del godere (delectare) e non pensare; lì dove lo spettacolo della serata invece propone e chiede  la com-prensione e l’apprendimento (docere) dei comportamenti modificati.

L’intero spettacolo, in chiave allegorizzante, è infatti la narrazione della rivolta del bisogno di emancipazione sociale del “si” (bemolle) del pentagramma musicale; è la nota (relegata nell’attico della scala) che nel pentagramma (assetto sociale) vuole conquistarsi una mobilità sociale appagante: essere un “do” acuto. E tanto più acuto  si fa il bisogno quanto, in una situazione di crisi, di corruzione e destabilizzazione a tutto tondo, il prestigio della posizione sulla linea del pentagramma viene avvertito come il dovuto risarcimento alla prolungata e ingiusta emarginazione. È ciò che, pare, con indubbia forza, traspare dal testo teatrale “QuasiDo” di Claudio Forti. Allo spettatore allora si chiede di rimanere un osservatore attento e sveglio, piuttosto che sedato, e ciò per seguire il nesso che rapporta il lavoro della scena e quello extra, ovvero la referenzialità storica contemporanea che ci investe con le sue periodiche, volute e controllate crisi economico-sociali e, in genere, mette l’ordine costituito a dura prova.

Chiaro, ma inaspettato per il pubblico del riposo domenicale, è infatti il salto politico-culturale dello spettacolo, ovvero il focolaio di tensione e bacchettate – a dritta e a manca (sindacati, partiti, opinione pubblica, etc.) – che il conflitto della crisi innesca, e le cui svolte, non sempre piacevoli, attanagliano e travolgono  i protagonisti coinvolti. La dinamica dell’agitazione socio-politica conflittuale, infatti, dall’autore del testo teatrale messa in atto (quindi anche dalla regia e dall’azione dell’attrice), viene dipanata attraverso il linguaggio della transcodificazione artistico-letteraria. Il codice musicale è quello che si presta alla bisogna (Rabelais, quando voleva parlare del malcostume e della corruzione degli ordini pauperistici religiosi, giocava la partita mettendo in scena gli uccellacci (i corvi): bianchi, neri, gialli, rossi, grigi, etc.). Artisticamente, Claudio Forti, ha avuto invece la felice idea di transcodificare l’intreccio dell’attuale crisi contrattuale tra cittadini (pubblico), lavoratori e sistema prendendo in prestito il ruolo e la funzione delle note del pentagramma musicale. Nel linguaggio dell’agitatore sociale e politico così la nota “si” (l’attrice, Diana), –  districandosi tra il “pentagono” del pentagramma e le sue rigide leggi di convivenza e gerarchia e in cerca di emancipazione e ascesa sociale (tuttavia fustigata), – si dà a tentativi e pensamenti vari nella ricerca di una via d’uscita e di approdo  per l’aspirazione che la lascia insonne e lavoratrice sperimentale.

Alla fine, però, dopo varie traversie, litigi e incomprensioni con le sorelle (le altre note), l’ordine costituito, custodito dalla chiave di violino & compagne di merenda, si ricompone. Dalle fughe nel campo di chiavi  e note musicali in odore di “cannabis”, o sovversive, il “si” rinuncia alla sua scalata. Spegne il motore del suo sogno di elevazione: decide di non accettare la promozione che permessa e proposta con il grado del solo “do” (l’acuto, niente!). Il riconoscimento (con sofferta macerazione etica individuale) però viene rifiutato. Il coronamento, per il ribelle “si”, significava accondiscendere a condizioni per lui moralmente improponibili: in cambio avrebbe, infatti, dovuto garantire il suo complice silenzio per l’avvenuto, nel frattempo, omicidio (sul lavoro) della sorella, la nota “fadi(-esis)”.

Si sentono ancora le vibrazioni dei colpi che hanno tenuto in stato d’assedio (siamo in baluardo) l’atteso riposo settimanale della psiche imborghesita. Chi sa quale scelta avrebbe fatto il pubblico! In fondo lo spettacolo di Claudio, Diana e Salvo può suonare come una sfida, e sospesa, alla capacità di decisione deliberativa di ciascuno! Uno schiaffo (finalmente) ai compratori e consumatori del piacere consolatorio acquistato, pur merce scaduta, dai mercanti dell’erotizzazione estetizzante la cultura, l’arte, il teatro...

Ma tutto ciò è anche merito  della regia di Salvo Ciaramidaro, il quale con passione e scelte mirate ha curato anche l’arredo, le luci e le musiche per rendere visibile la rivolta della nota “si” e il suo essenziale scenico.  

A Claudio Forti che, insieme al gruppo animatore del “Baluardo Velasco”, a fine spettacolo, ha preso la parola per ringraziare il pubblico e scusarsi, anche, per questa sua proposta teatrale “autoreferenziale”, per chiudere, diciamo (ma rimandiamo ad altro contesto l’argomentazione distesa): l’autoreferenzialità delle proposte artistiche è solo un fenomeno nato con il “modernismo”.