Il figlio di don Vito, inizialmente super-teste dell'indagine, e' stato ritenuto estraneo alle intese tra pezzi delle Istituzioni e di Cosa nostra, ma responsabile solo di avere svolto "costantemente il ruolo di latore di messaggi scritti e comunicazioni orali (aventi ad oggetto argomenti di primario rilievo per la predetta organizzazione mafiosa) fra il padre, Vito Ciancimino, e Bernardo Provenzano".
Si tratta di un'attivita' da "postino", per la consegna di pizzini che furono portati ai magistrati dallo stesso Ciancimino jr, ma la cui attendibilita' e autenticita' non e' mai stata provata in maniera scientifica.
Gli esperti della polizia hanno anzi concluso che non furono scritti con nessuna delle sette macchine da scrivere usate da Provenzano durante la latitanza. Nello stesso contesto e allo stesso imputato viene pure contestata la calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, che l'imputato avrebbe cercato di incastrare fabbricando un pizzino in cui il cognome del magistrato "Di Gennaro", tratto da uno scritto di Vito Ciancimino, sarebbe stato trasferito in un altro biglietto, compilato ancora una volta dall'ex sindaco mafioso e contenente i cognomi di funzionari dello Stato asseritamente infedeli. "Di Gennaro" sarebbe stato fatto passare per "De Gennaro", ma il taroccamento fu scoperto.
12,00 - Nella lista delle persone cui e' stato notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari (per le quali si prospetta la richiesta di processo) ci sono anche altri due indagati che non sono materialmente accusati di avere partecipato alla trattativa: l'ex ministro Nicola Mancino, che rispondera' di falsa testimonianza al processo Mori, e Massimo Ciancimino, accusato di concorso in associazione mafiosa e di calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro.
11:45 - Le accuse ipotizzate vedono insieme uomini dello Stato e uomini di Cosa nostra, che avrebbero agito "in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro".
Da una parte c'era la minaccia mafiosa, mossa contro il governo, dell'"organizzazione ed esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni". Dall'altra c'erano gli uomini dello Stato, che avrebbero raggiunto l'accordo per evitare altri danni alla collettivita': ma in questo modo si sarebbero impegnati a fare concessioni e ad assicurare una sorta di impunita' e di salvacondotto a Bernardo Provenzano, "principale referente mafioso di tale trattativa". Provenzano avrebbe fruito infatti di favori che gli avrebbero garantito il perdurare della latitanza fino al 2006. I pubblici ufficiali, secondo quanto si legge nell'avviso, avrebbero "agito con abuso di potere e con violazione dei doveri inerenti la loro pubblica funzione", anche "con altri soggetti allo stato ignoti, per turbare la regolare attivita' di corpi politici dello Stato italiano, ed in particolare del Governo". I mafiosi, per indurli a tali violazioni, avrebbero "usato minaccia a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l'attivita'". La minaccia sarebbe "consistita nel prospettare l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti, alcuni dei quali commessi e realizzati, ai danni di esponenti politici e delle istituzioni". Il primo delitto sarebbe stato quello che vide come vittima Salvo Lima: un'autonoma contestazione viene mossa, nell'avviso di conclusione delle indagini, riguardo all'omicidio del 12 marzo 1992, a Bernardo Provenzano. Dopo Lima ci fu l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, vicino a Calogero Mannino. Poi la strage di Capaci.
E a quel punto si sarebbe messo in moto il "dialogo", in cui la figura centrale sarebbe stato don Vito Ciancimino: ai boss interessava avere una legislazione favorevole, un trattamento carcerario di comodo, processi che si concludessero in modo ben diverso dal "maxi", in cui la Cassazione aveva pronunciato condanne pesantissime, il 30 gennaio del '92. Secondo la Procura "l'ottenimento di tali benefici" sarebbe stato posto "come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco alle istituzioni, la cui esecuzione aveva avuto inizio con l'omicidio dell'onorevole Lima".
Mannino sarebbe intervenuto per salvare se stesso, dopo l'omicidio di Salvo Lima, cercando di acquisire informazioni presso i rappresentanti degli "apparati info-investigativi, al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a Cosa nostra e aprire la trattativa con i vertici dell'organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra". In epoca successiva, l'ex ministro avrebbe pure "esercitato indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti" di sottoposizione al 41 bis.
11:30 - Tra le novita' il ruolo attribuito a Dell'Utri, che avrebbe fatto da mediatore - cosi' sostiene la Procura di Palermo - con Silvio Berlusconi, pure lui oggetto del ricatto, nella qualita' di presidente del Consiglio appena nominato, nel 1994.
Fra coloro che i pm ritengono responsabili anche l'ex capo della polizia, Vincenzo Parisi, e l'ex vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Francesco Di Maggio, entrambi morti nel 1996.
11:15 - i indagati sono dodici, ma della trattativa rispondono in dieci: cinque mafiosi, quattro uomini dello Stato e Marcello Dell'Utri, personaggio che negli anni oggetto dell'inchiesta, il '92-'93 e i successivi, era border line tra l'imprenditoria, la politica e - secondo l'accusa - anche la mafia.
L'avviso di conclusione delle indagini sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia e' stato e notificato a partire da ieri sera ai 12 indagati.
09:00 - La trattativa Stato - mafia sarebbe iniziata ancora prima della strage Falcone, all’inizio del ‘92, e sarebbe proseguita nel ‘94, con Marcello Dell’Utri, ambasciatore dei boss presso il neo presidente del Consiglio Berlusconi.
La Procura ha chiuso l’indagine e chiama in causa dodici nomi.
In cima alla lista, i boss Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e Cinà. Seguono i rappresentanti delle istituzioni e i politici: Subranni e Mori, del Ros; Mannino era ministro; Dell’Utri, uno dei
fondatori di Forza Italia. I pm mettono sotto accusa anche gli ex ministri Mancino e Conso, ritenendo che abbiano mentito.
Dopo quattro anni di indagini, la Procura di Palermo e la Dia ritengono di aver ricostruito i retroscena della trattativa fra uomini dello Stato e i vertici di Cosa nostra. Quel dialogo segreto avrebbe avuto tre fasi: ecco la novità contenuta nell’avviso di chiusura delle indagini firmato ieri dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Nel documento non c’è invece la firma di un altro componente del pool, Paolo Guido, che non ha condiviso la sintesi finale dell’inchiesta.
L’atto d’accusa della Procura dice adesso che nei primi mesi del 1992, i contatti Stato-mafia sarebbero stati avviati dall’ex ministro Calogero Mannino, che temeva di essere ucciso. I magistrati ritengono che l’esponente democristiano avrebbe messo in allerta gli uomini del Ros, ma avrebbe dialogato anche con alcuni boss, per «avviare una trattativa con i vertici dell’organizzazione mafiosa — scrivono i pm — finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra e far cessare la programmata strategia omicidia-stragista già avviata con l’omicidio Lima».
Nell’estate 1992, dopo la strage Falcone, i carabinieri del Ros avrebbero poi tentato di fermare la strategia di morte dei corleonesi iniziando un dialogo segreto con l’ex sindaco Vito Ciancimino. In questi delicati passaggi, l’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa si interseca con quella di Caltanissetta sul movente della strage Borsellino: è ormai un dato
acquisito dalle inchieste che Paolo Borsellino avrebbe saputo della trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia, avrebbe anche tentato di opporsi, e per questa ragione la sua morte sarebbe stata «accelerata», come ha spiegato il pentito Giovanni Brusca.
La Procura di Palermo crede in parte al racconto di Massimo Ciancimino a proposito degli incontri fra il generale Mori e l’ex sindaco Vito Ciancimino: sarebbero avvenuti anche prima della strage Borsellino, circostanza sempre negata dal generale Mori. La Procura è convinta pure che ai carabinieri Mori e De Donno sarebbe stato consegnato, tramite Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Totò Riina: era il prezzo che Cosa nostra chiedeva per interrompere la stagione delle bombe.
Revoca del carcere duro, revisione dei processi, annullamento dei processi più importanti già conclusi. È un altro dei punti centrali dell’inchiesta, anche questo sempre respinto dai carabinieri.
La terza fase della trattativa sarebbe iniziata dopo l’arresto di Riina, nel gennaio 1992. Secondo la Procura di Palermo, a condurla sarebbe stato Bernardo Provenzano.
E dato che Ciancimino era in carcere, la trattativa sarebbe stata portata avanti da un altro colletto bianco: Marcello Dell’Utri. Scrivono i pm che Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero «prospettato al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e di Dell’Utri una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura
per gli aderenti a Cosa nostra».
Sostiene Brusca che una «risposta » sarebbe poi arrivata, sempre per il tramite di Mangano, l’ex stalliere di casa Berlusconi.