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30/05/2012 08:11:02

Rapporto tra battesimo e Spirito

Questo, in definitiva, è l’unico autentico miracolo di cui narra l’episodio riportato all’inizio del libro degli Atti: lasciando alle spalle la paura si dispiegano gli orizzonti e si diventa così cassa di risonanza per un messaggio che è dato a tutti e a ciascuna di poter comprendere. Questo Spirito che, inizialmente, si dona liberamente, al punto che investe coloro che, ignari, non lo stavano in alcun modo attendendo o invocando, ha anche Lui una storia che, in tutta onestà, non saprei se definire evolutiva o involutiva. Si tratta di una storia narrata nel corso dello stesso libro degli Atti e che approda, nel diciannovesimo capitolo, al racconto che abbiamo ascoltato. Protagonista, come del resto avviene per tutta la seconda metà del libro, non è uno dei dodici, bensì un uomo che amò definirsi anch’egli apostolo, « non [però] a motivo dell’uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti» (Galati 1:1): Paolo di Tarso. I suoi rapporti con i dodici, inizialmente, non sono dei migliori: finché predica nell’area palestinese, Paolo entra sovente in conflitto con l’impostazione autoritaria propria di Pietro e di Giacomo, anche se il libro degli Atti cerca di attenuare un contrasto che, con ogni probabilità, fu acuto e profondo. Possedendo una visione meno legalistica della fede, Paolo decise di dirigersi progressivamente verso quei territori della Grecia e dell’Asia Minore che, per «contaminazione culturale» e per distanza dal tempio come centro della religiosità giudaica, potevano dimostrarsi più propensi ad accogliere una visone religiosa meno rigida e più aperta ad elementi di rinnovamento. Dopo una permanenza nel carcere della città macedone di Filippi, Paolo, attraversate le città di Tessalonica, Atene e Corinto ed avendo persino fatto ritorno ad Antiochia, in Siria, giunge infine ad Efeso, nell’attuale Turchia. Arrivato in città, il testo ci dice che Paolo vi trova alcuni discepoli: segno del fatto che, in un modo che nello specifico ignoriamo, l’annuncio del cristianesimo nascente era già giunto sin in quella regione lontana. Del resto, non dobbiamo stupircene troppo: a quel tempo, infatti, Efeso era un porto commerciale molto importante, dove lo scambio di idee e l’incontro tra religioni e culture diverse doveva essere tutt’altro che inconsueto. Ciò che in qualcuno desta sorpresa e che altri, incomprensibilmente, tacciono, è il fatto che questo annuncio non coincide in tutto e per tutto con quello di cui si fa portavoce Paolo. La preoccupazione dell’apostolo viene presentata dal narratore in modo estremamente interessante: «Avete ricevuto lo Spirito santo» - chiede Paolo ai discepoli presenti nella città di Efeso, non appena ai suoi abitanti - «avendo creduto?». Paolo sta parlando con persone che si dichiaravano, diremmo oggi, credenti; e proprio qui risiede l’aspetto interessante: in che cosa consisteva questa loro fede? Provare a rispondere in modo preciso a questa domanda è estremamente difficile: non disponiamo, infatti, di elementi sufficienti per stabilire quale fosse, per così dire, la «confessione di fede» dei primi cristiani di Efeso. Ma il nostro racconto riporta comunque un aspetto interessantissimo: questi discepoli dell’Asia Minore non avevano mai sentito nemmeno parlare di uno Spirito santo. Curioso: soprattutto se pensiamo al fatto che questo, sin nei credo ecclesiastici più antichi come quello apostolico o quello niceno, è un elemento centrale. Alcuni dei primi cristiani, invece, a quanto sembra, lo ignoravano. Dunque? Erano cristiani anche loro? Oppure dobbiamo concludere che non lo fossero, che forse credevano di esserlo ma, in verità, non lo erano?   Tutto dipende, naturalmente, dal significato che attribuiamo al termine fede: se con ciò, infatti, intendiamo una dottrina codificata che si compone di elementi stabiliti in maniera univoca e definitiva, allora saremmo costretti a concludere che molti dei primi cristiani, in verità, non erano tali. Ma se con il termine fede intendiamo un fenomeno più sfuggente ed articolato, che prende forma, anzitutto, in una dimensione pratica, di vita vissuta, allora la prospettiva cambia sensibilmente. Ed è proprio in quest’ultimo modo che sembrano intendere la fede i discepoli di Efeso in cui Paolo si imbatte. Sorpreso da quanto ha udito dalle loro voci, Paolo domanda loro: «Quale battesimo avete ricevuto?». La risposta non si fa attendere: «Quello di Giovanni», che, specifica immediatamente Paolo, «è un battesimo di conversione» o, per meglio dire, di cambiamento nella comprensione delle cose, come indica il termine greco metánoia.
Un bel battesimo, mi verrebbe da dire, così, su due piedi: il segno visibile di una volontà di cambiamento, di un nuovo inizio in me e in quel mondo fuori di me che tanto dipende dal modo in cui io stesso lo accosto e lo osservo. Ma al di là dei gusti personali, questo è un battesimo che mi convince per un motivo assai più profondo: si tratta, infatti, del battesimo che lo stesso Gesù ha ricevuto, rendendosi, in tal modo, disponibile ad accogliere in sé questo cambiamento che il volgere la mente ed il cuore a Dio dovrebbe provocare. Il battesimo che Gesù ha accettato di ricevere per mano di Giovanni era un battesimo di conversione: a maggior ragione, dunque, dovrebbe esserlo anche il nostro. Ma Paolo obietta: in realtà Giovanni battezzava allo scopo di dirigere lo sguardo del popolo verso chi veniva dopo di lui: e questi era Gesù.   Ciò è senz’altro possibile, sebbene si tratti, senza dubbio, della prospettiva di Paolo più che di quella di Giovanni. Ma, anche posto che si tratti, come è probabile che sia, di una lettura plausibile del battesimo, due aspetti di ciò che Paolo afferma con tanta sicurezza mi fanno riflettere.   Il primo riguarda l’atteggiamento che poi diverrà quello comunemente adottato dalla cristianità dei secoli successivi, che impose battesimi forzati prescindendo da ogni comprensione del messaggio evangelico e da ogni libero convincimento personale: Paolo, infatti, non dà ascolto sino in fondo all’interpretazione che gli efesini danno del gesto battesimale; si limita a proporre e, piuttosto velocemente, persino ad imporre la propria visione, dando per scontato che si tratti dell’unica possibile poiché dell’unica corretta. Il significato del battesimo è quello che lui stesso ha inteso ed attribuito a questo gesto: il senso conferito dall’altro a quello stesso gesto è da sostituire, da soppiantare. Uno soltanto, infatti, può essere il significato autentico: e a giudizio di Paolo, come di tutta la cristianità successiva, questo significato sarà sempre il proprio, mai quello dell’altro; e sarà sempre l’altro, di conseguenza, a doverlo recepire. Questo anche e soprattutto quando l’altro è il fratello o la sorella in fede che crede diversamente: presto la parola d’ordine diventerà omologazione e la pluralità propria del cristianesimo delle origini andrà restringendosi. Il secondo aspetto concerne invece il fatto che Paolo diede inizio a quel processo di concentrazione sul Cristo che, talvolta, ha finito per mettere in secondo piano l’evangelo. Questo avviene anche con il battesimo: un conto, infatti, è interpretarlo come il segno di un cambiamento da realizzare; un altro è comprenderlo in riferimento a Gesù soltanto. Naturalmente, è chiaro che Gesù e l’evangelo sono in strettissima e reciproca relazione: ma mentre non è possibile predicare un evangelo senza Gesù, è invece possibile insistere su un Gesù senza evangelo. È quel che può accadere in un annuncio che calca l’aspetto redentivo della croce tralasciando il suo significato storico di oppressione o che accentua l’evento della resurrezione mettendo in ombra la necessità di un Regno da costruire qui ed ora. L’una cosa non esclude l’altra: ma la teologia nata dalla radicalizzazione delle affermazioni dell’apostolo Paolo sembra riconoscere poco spazio a sottolineature diverse e a quelle sfumature di sensibilità che dovrebbero contraddistinguere i cammini  - intimi, personali, molteplici - della fede.   Un ultimo dato riportato nel nostro racconto ribadisce la tentazione sempre in agguato dell’omologazione del diverso nell’ambito della fede. Paolo, infatti, impone le mani: ed è in quel momento, dice il testo, che  lo Spirito santo discende sugli interlocutori, in realtà del tutto passivi, dell’apostolo. Ma lo Spirito di Dio è insopprimibilmente libero e non accetta uomini, istituzioni, gesti o «sacramenti» che intendano vantare un’esclusiva sulla forma di dispensarlo. Non impareremo mai abbastanza, come occidentali e come chiese, che lo Spirito - così come Dio - non ci appartiene ma ci incontra e ci investe e, per ciò stesso, dimora presso l’altro prima che presso di noi: al punto che, senza l’altro, non ci è dato di poterlo incontrare e di lasciarci, così soltanto, attraversare, scuotere, trasformare.    Domenica 27 Maggio 2012 - Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com



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