E così ora tocca a me tentare di fissarle finalmente in queste righe, nella speranza che ancora per un po’ non vadano perdute. Sono le piccole memorie di una Marsala assai lontana nel tempo… con l’aggiunta di qualche episodio un po’ più recente e non indegno di menzione, di cui io stesso fui diretto testimone.
Prima parte: storie di vecchi parrini
La riurdàta
Un giorno che non so, di un anno che non so tra le due guerre mondiali del Novecento, il parroco della chiesa di San Matteo a Marsala, padre De Maria, ebbe una sincope, entrò in coma vigile e i medici gli diedero poche ore di vita. Non c’era tempo da perdere: si doveva sottoporre il vecchio parrino al sacro rito della riurdàta, la “ricordata” che serviva a liberare il morente dall’estremo attaccamento alla vita terrena, ricordandogli, appunto, che la sua anima stava per involarsi nelle alte sfere divine. Si mandò quindi a cercare un sacerdote, e il primo che capitò a tiro fu il giovane don Ignazio.
Ignazio accorse al capezzale del parroco, e dopo avergli impartito l’estrema unzione gli s’inginocchiò accanto, con le mani giunte, per sussurrare al suo orecchio le formule latine della riurdàta: «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris…». Il moribondo, allo stremo delle forze, aveva gli occhi semichiusi ed era già rigido come un morto. Il suo respiro impercettibile si materializzava di tanto in tanto in un penoso rantolo. Sembrava del tutto assente, e non più in grado di udire – né tanto meno di meditare – le accorate ammonizioni che gli ronzavano nei timpani. La scena andò avanti così per alcuni minuti, quand’ecco, all’improvviso, padre De Maria ebbe un sussulto di vita. Riuscì, per un istante, ad aprire gli occhi. Volse il capo verso il giovane prete, raccolse le ultime energie in uno sforzo tremendo, e gli ordinò: «’Gnazio, pensa pi ttìa!».
La pasta con le fave
Il canonico Paolo Chiaramonte di Ribera, arciprete di Marsala tra il 1912 e il 1930, era un uomo pieno di vigore e d’ingegno, e aveva uno strano modo di trattare le questioni teologiche nei suoi sermoni domenicali. Ma assai efficace. Una volta si trovò a dover spiegare ai fedeli il significato dell’amore divino. Il concetto non era dei più facili, e don Paolo, che dal pulpito dominava bene tutta la platea, si accorse che molti sguardi erano perplessi e distratti. Mentre parlava, la campana della matrice diede i tocchi del mezzogiorno. L’ora del pranzo era vicina, e all’arciprete venne un’idea luminosa. Puntando il dito verso il pubblico, e sorprendendo tutti con una risatina angelica, pose ai fedeli una domanda: «Insomma, ‘u vulìti sapìri com’è dduci l’ammuri di Ddiu?». Gli sguardi si fecero attenti, le orecchie si tesero all’ascolto. Don Paolo rimase in silenzio per un minuto buono. Poi esclamò: «È cchiù dduci d’a pasta cu i favi!». E finalmente il concetto fu chiaro, perché la pasta con le fave, come si fa a Marsala, è una delle cose più dolci del mondo.
La regina dei misteri
C’era sempre però, per don Paolo, il gravissimo scoglio del latino. Come fare a rendere intelligibili alla massa dei semianalfabeti quelle formule arcane, misereree tantum ergo? Nemmeno la fantasia dell’arciprete era in grado di sciogliere quegli enigmi. Così, abbandonate a se stesse, a volare in totale libertà erano le fantasie dei fedeli, che in certi casi riuscivano perfino a costruire dei “mondi paralleli”, basandosi unicamente sulle magiche assonanze di certe parole. Fu in tal modo che a Marsala, in un’epoca imprecisabile, si diffuse la leggenda di Donna Bisòdia. Chi era costei? Semplice: era quella che nostro Signore Gesù Cristo aveva nominato nel Pater Noster, laddove, invocando dal cielo il nostro pane quotidiano, si era appellato appunto a una tale “dona-nobis-hodie”. Dispensatrice del pane, dunque. Santa debellatrice della fame. Ignota regina di un mondo misterioso, come il remoto regno medievale del potentissimo Prete Gianni. O forse la Madonna stessa, sotto mentite spoglie? Nessuno lo seppe mai. Ma per tutti, quando si trattava di evadere col pensiero dalla dura realtà quotidiana, era dolce e gioioso immaginare di poter trovare asilo nel fantastico regno di Donna Bisòdia.
Vecchie conoscenze
Un giorno mio padre, che all’età di sedici anni era un fervido militante dell’Azione Cattolica, entrò alla matrice in una morta ora pomeridiana per recitare in solitudine alcune orazioni. Mentre era assorto in preghiera, sentì echeggiare nella chiesa deserta degli energici passi. Alzò lo sguardo, e vide che si trattava dell’arciprete, che uscito dalla porta della sacrestia si dirigeva con furia verso l’uscita del tempio. Ma, per la barba di Noè, qualcosa di storto c’era nella sua figura. Aveva, niente meno, il cappello sulla testa! Mio padre sobbalzò sulla panca. Lo stesso arciprete gli aveva insegnato, infatti, che nella casa del Signore nessun uomo deve azzardarsi a portare un copricapo. Perciò, indignato, il giovanotto si alzò, andò incontro al vecchio parrino, e senza tante storie gli chiese: «Don Paolo, riverisco, ma come mai lei porta in chiesa il cappello sulla testa?».
L’arciprete non si arrabbiò. Scoppiò in una delle sue solite risatine angeliche, e poi con voce tagliente gli rispose: «Va fa ‘n sacchetta, picciotto, ca eo e ‘u Patreternu avi quarant’anni ca ni canuscèmu!».
Serpi in seno
Per quanto saggio e avveduto, don Paolo non s’era accorto però di avere allevato anche delle serpi nel seno della sua chiesa. Si trattava di due chierichetti dal dente avvelenato, che al culmine della Santa Messa, dopo il solenne silenzio che seguiva alle parole dell’Eucarestia: «Hoc est enim Corpus meum, quod pro vobis tradetur», mentre suonavano il campanellino tra nuvole d’incenso, lanciandosi di sottecchi un ghignante sguardo d’intesa biascicavano sottovoce le formule: «Pane perso!», «Vino perso!», «Incenso perso!».
Mio padre li udì varie volte distintamente mentre recitavano, come in un responsorio, quelle blasfeme parole. Ma non se la sentì mai di denunciare i due sciagurati, riferendole all’arciprete.
POSCRITTO: In questo, come in altri racconti che vado pubblicando da mesi nella rubrica “Arriva Garibaldi!”, potrebbero essere contenute delle inesattezze, dovute, in assoluta buona fede, a qualche mancanza della mia memoria o delle fonti (scritte e orali) che a suo tempo mi trasmisero le vicende qui narrate. Se per caso qualche avveduto lettore dovesse rilevare uno o più di questi errori, gli sarò grato se vorrà comunicarmi la sua rettifica e le sue osservazioni, scrivendomi una mail attraverso la pagina “Contatti” del mio sito internet: www.massimojevolella.it Grazie.