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28/04/2012 22:00:39

11 Maggio 1943

Tre ore dopo, in piazza Loggia, un giovane di 28 anni si dirigeva a passo lesto verso il negozio di tessuti che la sua famiglia possedeva all’imboccatura del Cassero. Il giovane si chiamava Riccardo Pellegrino, era sposato, aveva due figli, prestava servizio nell’esercito dall’inizio della guerra ed era rientrato a Marsala da due giorni, grazie a una licenza straordinaria accordatagli dal comandante della guarnigione di Palermo. Alzò la saracinesca del negozio, e ritrovò le cose che non vedeva da tempo: le stoffe di pregio ben disposte sugli scaffali, la carta moschicida che pendeva dal lampadario di ferro, l’antico bancone di legno intarsiato dai tarli.

In quello stesso istante, il piccolo Roberto si svegliò nella sua culla. Tude, sua madre, lo prese fra le braccia e lo allattò. Rosalia, sua nonna, scese in giardino a lavare i panni del nipote nella fontana di pietra, accanto al mandorlo già gonfio di gusci verdi. Totò, il nonno, era andato a Porta Mazara a comprare un medicinale. Zia Maria, come sempre, leggeva i suoi libri di filosofia tedesca, nella stanza che affacciava sul viale della stazione, a cinquanta metri dal rifugio antiaereo. Regnava la serenità, quella mattina, nella casa di Antonio Jevolella.

Ma poi, tutti pensavano, a chi poteva venire in mente di coinvolgere nel conflitto una città come Marsala? L’Africa settentrionale era praticamente caduta in mano agli angloamericani – la resa definitiva dell’armata italo-tedesca avverrà il 13 maggio – e dal porto lilibetano chi poteva più salpare? E dov’erano le navi da guerra? E le divisioni dell’Asse pronte a imbarcarsi per raggiungere Tunisi? Tranne qualche presidio e qualche bunker di cemento sparso sulle rive del mare, nulla di militarmente rilevante si trovava a Marsala. Anche il porto della Florio era bloccato, e il vino invecchiava nelle botti dell’antico stabilimento situato nella marina sud-orientale della città. Non lontano dalla casa di Totò e Rosalia che quel giorno si sentivano sicuri e tranquilli.

Mezz’ora dopo, in una casa di via XIX Luglio, un bambino di quattro anni, Antonio Spina, chiese alla mamma se poteva uscire in strada a giocare. La mamma gli disse di no. Aveva fatto un brutto sogno. Era meglio che Antonio non si perdesse nei vicoli. Era meglio tenerselo vicino.

In quel momento un’altra giovane mamma, Francesca Maltese, che con la figlioletta Beatrice era andata a dormire in campagna, nella contrada di Gurgo sulla via che sale verso Salemi, uscì sulla terrazza della masseria a stendere dei panni, e da quella posizione elevata poté abbracciare in un nitido sguardo tutta la città di Marsala, dai lidi del Berbero ai colli di Santa Venera, e la cupola della matrice che svettava sulla distesa delle antiche case di tufo giallognolo. A un tratto, però, ebbe la sensazione che un nugolo di minuscole macchioline scure turbasse l’azzurro perfetto del cielo, Laggiù, verso sud-ovest, in direzione della Tunisia… sì, c’era qualcosa, qualcosa che si avvicinava rapidamente, come uno stormo di uccelli migratori che avesse bizzarramente deciso di abbandonare l’Africa per godere il dolce clima della Sicilia nel mese di maggio.

Trenta secondi dopo, a Marsala, suonarono le sirene dell’allarme. Erano le dieci di mattina. Il pescatore dello Stagnone aveva consegnato il suo pesce al mercato. Poi era tornato alla barca, a sistemare la rete. Era seduto sul bordo del molo, con le gambe penzoloni sull’acqua scura del porto. Udito l’allarme, non si preoccupò più di tanto: gli bastavano pochi minuti a finire il lavoro. Altri due minuti per raggiungere il rifugio più vicino, e la faccenda si sarebbe risolta senza danno. Si chiamava Salvatore, il pescatore. Fu il primo a morire quel giorno, tranciato dalla scheggia di una bomba piovuta su un blocco di cemento del molo.

Riccardo Pellegrino, chissà perché, invece di correre al rifugio si precipitò dall’amico Trincilla, che aveva una bottega di sartoria sull’altro lato del Cassero, a pochi metri dal suo negozio. Trincilla era terrorizzato, non aveva il coraggio di uscire in strada. Riccardo lo pregò: «Vieni, corri con me». Ma il sarto, guidato dall’istinto, si rifugiò sotto il bancone robusto della bottega. Si udirono le prime esplosioni. Riccardo si strinse, ritto in piedi, nell’angolo tra un pilastro e un muro portante della casa. Cadde una bomba sull’edificio, Riccardo morì sepolto nel crollo. L’amico Trincilla fu estratto vivo dalle macerie molte ore dopo: il bancone lo aveva salvato.

Sul viale della Stazione, nonno Totò era appena rientrato dalla farmacia. La medicina era per Maria, la figlia filosofa, che soffriva di una malattia alle gambe, e riusciva a camminare solo lentamente, con grave difficoltà. Quando suonò l’allarme, tutti a gridare: «Maria, alzati, dobbiamo scappare al rifugio!». Ma i dolori impedirono a Maria di mettersi in piedi velocemente. E così piovvero le prime bombe, e non ci fu tempo di andare al rifugio. «Tutti in giardino!», gridò il nonno. E tutti scesero in giardino dalla scaletta della cucina. Maria e Tude col piccolo Roberto in braccio si accovacciarono sotto il mandorlo. Nonna Rosalia si gettò a terra contro il muretto meridionale. Totò si nascose tra la scala e la vasca di pietra. Una bomba centrò il giardino, scavandovi un cratere profondo due metri. Maria, Tude e Totò sopravvissero miracolosamente. Di Rosalia, nel giardino, rimase soltanto una scarpa. Il suo corpo senza vita fu ritrovato il giorno dopo a molti metri di distanza, vicino ai binari della ferrovia. Il piccolo Roberto fu estratto vivo da un cumulo di terra in cui era rimasto semisepolto. Era coperto di sangue, lottò per giorni tra la vita e la morte, ma alla fine si salvò.

In via XIX Luglio, la famiglia Spina corse al rifugio della Villa del Rosario: una sorta di grande caverna artificiale dotata di un solo tunnel di comunicazione con l’esterno. Quasi quattrocento persone erano stipate là dentro. Mancava l’aria. Il piccolo Antonio cominciò a piangere: aveva paura del buio e voleva respirare. Dopo un po’, suo padre lo prese in braccio e lo condusse all’imboccatura della grotta. In quel momento cadde una potentissima bomba sulla volta del rifugio. Trecentodieci persone, in gran parte vecchi, donne e bambini, morirono sepolte nel crollo della grotta. Antonio e suo padre furono tra i sopravvissuti. La mamma fu tra le vittime.

Quel mattino, a Marsala, persero la vita quasi mille persone. Alto fu il numero dei feriti e dei mutilati. I danni alla città, alle sue chiese e ai suoi monumenti storici furono enormi e in qualche caso irrimediabili. E il tutto, perché? Lo sbarco delle truppe angloamericane in Sicilia avvenne due mesi dopo sulle spiagge sud-orientali dell’isola, a centinaia di chilometri di distanza da Capo Boeo. Winston Churchill, nella sua Storia della Seconda guerra mondiale, ricostruisce le fasi dello sbarco in Sicilia, senza degnare di un solo cenno il martirio di Marsala e delle altre città siciliane devastate dalla furia delle fortezze volanti Boeing B-17, dei B-25 e B-26. Il motivo dell’omissione è chiaro: i bombardamenti furono assolutamente inutili per lo svolgimento della campagna militare alleata. Servirono, al massimo, per disorientare le tattiche difensive dei comandi italiani. Del resto, i siciliani odiavano l’alleanza di Roma coi tedeschi e non vedevano l’ora di scrollarsi di dosso il fascismo: ergo, non v’era alcun bisogno di “fiaccarne il morale” a suon di bombe e di carneficine. E questo, gli angloamericani lo sapevano fin troppo bene.

Francesca Maltese, dalla terrazza della masseria di Gurgo, poté assistere per due ore, col cuore in gola, allo spettacolo pirotecnico dell’undici maggio 1943. Quando mi rese la sua testimonianza, nel marzo del 2003, aveva appena compiuto novant’anni. Ma quelle immagini non le aveva mai dimenticate. Ringrazio lei, che è morta nel 2008, e anche Isabella Mollica Grignani (l’indimenticabile zia Bella!), morta nel 2010 all’età di quasi cento anni, per i loro racconti che mi hanno aiutato a ricostruire qualche frammento di vita vissuta di quella tragica giornata.