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19/04/2012 10:14:30

Il teologo risponde: Cos'è questo 'parlare in lingue'?

I. La prima riguarda la glossolalia o il «parlare in lingue». Il Nuovo Testamento ne parla più volte (nel Libro degli Atti e nella I Corinzi), presentandolo non come un fenomeno di autosuggestione, ma come un dono dello Spirito Santo. Stando dunque alla testimonianza della Scrittura, non c’è da dubitare che la glossolalia sia, o possa essere, un segno  divino. Tipico, al riguardo, è quello che è successo a Pentecoste, quando il primo e vistoso frutto dell’effusione dello  Spirito fu che gli apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue» (Atti 2, 4); la stessa cosa successe anche ad altri  credenti (Atti 10, 46; 19, 6). Anche l’apostolo Paolo aveva questo dono, tanto che scrive ai cristiani di Corinto:  «Ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi» (I Corinzi 14, 18). Detto questo sono necessarie alcune  precisazioni. [1] La prima è che, stando al Nuovo Testamento, il fenomeno che va sotto il nome di glossolalia non era  diffuso in tutta la cristianità del primo secolo, ma circoscritto ad alcune comunità soltanto. Questo significa che non  dappertutto e non sempre l’azione dello Spirito Santo si è manifestata nella forma del «parlare in lingue». Dico questo  non per sminuire il valore del fenomeno, ma per evitare che gli si dia più importanza di  quella che merita. Inoltre, la natura del fenomeno non è chiarissima. A Pentecoste infatti il «parlare in altre lingue» degli apostoli suscitò immediata e piena comprensione da parte di tutti i presenti i quali, pur parlando lingue diverse, dicevano, pieni di stupore: «Li  udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natia» (Atti 2, 8). In realtà, gli apostoli parlavano un’unica lingua, quello dello Spirito, che però, per così dire, si articolava in mille linguaggi umani, così da essere capita da tutti. Il  miracolo di Pentecoste sembra essere stato questo: l’apparizione di una lingua diversa da tutte le lingue umane, che però tutti capiscono, pur parlando lingue tra loro diverse. Perciò ciascuno ritiene che la lingua parlata dagli apostoli sia la sua, ma non lo è; è la lingua di Dio, che si fa capire da tutti. Nella chiesa di Corinto, invece, succedeva il contrario:  nessuno capiva quel che diceva colui che «parlava in lingue»; perciò l’apostolo Paolo raccomanda che ogni discorso «in lingua» venga anche interpretato e tradotto in parole comprensibili, perché solo così la chiesa è edificata (I Corinzi 14, 12-17) . Non è dunque chiaro se il fenomeno accaduto a Pentecoste e quello presente nella chiesa di Corinto fossero  identici; sembra di no, essendo i loro effetti opposti. Non possiamo qui approfondire ulteriormente la questione. Era però doveroso segnalarla. [2] La seconda considerazione è questa: fermo restando che la «diversità di lingue» (come pure la loro interpretazione) è un possibile dono dello Spirito, come afferma con ogni chiarezza l’apostolo Paolo (I  Corinzi 12, 10.28.30), è anche vero che lo stesso apostolo distingue tra «doni maggiori», da «desiderare  ardentemente» (I Corinzi 12, 31), perché costitutivi della fede e della vita cristiana, e i doni che, pur importanti, non sono «maggiori», cioè non indispensabili perché ci siano cristianesimo e chiesa. Il «parlare in lingue» non è, secondo l’apostolo Paolo, un «dono maggiore». L’apostolo lo apprezza e, come ho già detto, occasionalmente lo pratica. Ma aggiunge: «Io ben vorrei che tutti parlaste in altre lingue; ma molto più che profetaste; chi profetizza è superiore a chi parla in altre lingue, a meno che egli interpreti, affinché la chiesa ne riceva edificazione» (I Corinzi 14, 5). E ancora: «Nella chiesa preferisco dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua» (v. 19). Chi «parla in lingue» edifica solo se stesso; la profezia, cioè la predicazione, edifica la chiesa. Perciò la predicazione è «maggiore» della glossolalia, comunque la si concepisca. È comunque sbagliato considerare la glossolalia il segno per eccellenza dell’azione o del «battesimo dello Spirito» (o «nello Spirito»). Come ho già detto, la glossolalia non è un «dono maggiore». [3] Nel campo delle esperienze mistiche e del parlare estatico sono ovviamente facili gli abusi e  anche le illusioni: si può far passare per «doni dello Spirito» fenomeni di varia natura che hanno a che fare con la  psiche e l’emotività umana, e non con lo Spirito Santo, cioè con Dio. Non tutto quello che si presenta come «spirituale» lo è realmente; può trattarsi di «carne», cioè di umanità, travestita, anche in buona fede, come «Spirito», cioè divinità. Il diavolo è maestro in questi trucchi; non per nulla Lutero lo chiama «la scimmia di Dio»; la sua arte maggiore è  confondere l’umano con il divino e apparire per quello che non è. Questo non significa screditare a priori il «parlare in lingue», ma significa, in questo campo (e anche in altri), invitare al discernimento (non facile, ma non impossibile) tra ciò che viene da Dio e ciò che viene dall’uomo. [4] Più interessante però della domanda se il «parlare in lingue» sia «segno divino» oppure «solo autosuggestione», mi sembra essere quest’altra domanda: Al di là della natura del  fenomeno, quale può essere il suo significato? A me pare che un significato possa essere cercato principalmente in due direzioni. [a] La prima è che questa «lingua degli angeli» (I Corinzi 13, 1), cioè non umana, parlata però  occasionalmente da creature umane, segnala in maniera inequivocabile l’alterità di Dio e delle cose divine, che però si manifesta in mezzo alla comunità umana: Dio è in mezzo agli uomini, quindi presente e vicino a loro, ma come radicalmente altro; non è un pezzo di questo mondo. Come sono diversi i suoi pensieri e «più alti» dei nostri (Isaia 55, 9), così è diversa, se così si può dire, la sua lingua, quando, attraverso lo Spirito, parla direttamente, e non attraverso la mediazione di linguaggi umani. E che cosa vuol dire che Dio è «altro» rispetto a noi? Vuol dire che non è un prodotto umano, creato dall’immaginazione, dal desiderio oppure dalle paure o dalle frustrazioni dell’uomo. Ma la sua divina  alterità non significa estraneità, lontananza, e neppure incomunicabilità: Dio è Parola, che posso anche non capire, ma che può essere «interpretata», cioè tradotta nella mia lingua. Dio vuole, sì, manifestare la sua alterità, ma, come Altro, vuole comunicare con noi. Ecco perché Pietro, dopo aver parlato «in lingue», fa un discorso che tutti possono capire. [b] Ma c’è un secondo significato possibile. Chi sono stati i primi cristiani a «parlare in lingue»? Sono stati gli apostoli, asserragliati nella «camera alta», paralizzati dalla paura, che mai avrebbero osato rivolgersi alla folla con un discorso coraggioso (e pericoloso) come quello di Pietro: lo Spirito li ha liberati dalla paura e ha sciolto la loro lingua. E chi erano i membri della chiesa di Corinto che occasionalmente parlavano «in lingue»? Erano per lo più schiavi o ex-schiavi,  gente di umilissima condizione, probabilmente analfabeti, che mai e poi mai avrebbero osato parlare in pubblico e forse non sarebbero stati in grado di costruire un discorso razionale: ma ecco che lo Spirito dà loro la parola, come dice il profeta: «La lingua del muto canterà…» (Isaia 35, 6). In questo senso la glossolalia è davvero «segno divino», non  per il suo aspetto miracoloso, ma perché fa parlare i «muti», cioè quelli che non osano parlare. Il miracolo è questo. Ma  lo spazio a mia disposizione è finito. Alle altre due domande risponderò la prossima volta.

Paolo Ricca - da 'Riforma' del 20 aprile 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com



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