A un tratto vedemmo giungere a passo lento, dalla Loggia, un signore alto e allampanato, di un’ottantina d’anni, vestito in abito di candido lino, il cranio calvo e abbronzato, la fronte spaziosa, grandi occhiali cerchiati di plastica nera, una sigaretta tra le dita, il viso contratto in una specie di smorfia scettica e un po’ assente. Mio padre s’illuminò, ed esclamò rivolgendosi a me e a mio fratello: «Ora vi presento don Giulio Anca!».
Don Giulio Anca era il poeta eccentrico di Marsala. Frequentatore del Circolo dei nobili, e tuttavia anticlericale e ribelle, in gioventù aveva militato nelle schiere dei futuristi, e una leggenda ben consolidata asseriva ch’egli aveva intrecciato negli anni Trenta un’amichevole corrispondenza con Giuseppe Ungaretti, che lo stimava per il suo genio stravagante. Mio padre e don Giulio parlarono a lungo, nella bottega del ciabattino. Ricordo che il discorso, cominciato con l’elogio delle panelle fritte in vendita alla porta del vecchio mercato, si era orientato progressivamente su temi politici e intellettuali, per concludersi in una lode garbata, da parte di mio padre – che ad ogni buon conto aveva sempre odiato Marinetti – delle famose poesie futuriste composte da don Giulio in gioventù. Così, alla fine, il poeta promise burberamente che il giorno dopo gli avrebbe consegnato una copia di alcuni di quei versi, per farli conoscere a me e a mio fratello.
Mi è rimasta perfino una foto di quell’incontro, scattata appunto da mio fratello Sandro che allora, appena tredicenne, si era consacrato a una compulsiva attività di fotografo dagli esiti inquietanti. In quell’immagine, il ciabattino quasi ride, mio padre accenna un sorriso perplesso, mentre don Giulio, con una mano in tasca, volge lo sguardo di sbieco, con aria che si direbbe disgustata. Forse, da utopista bislacco qual era, non aveva mai perdonato all’ingegner Corrado Jevolella di essersi candidato per il Senato nella lista democristiana, alle elezioni del 1953, accanto ai futuri “notabili” che già odoravano di intrallazzo mafioso ancor prima di essere nominati? (Mio padre allora – un idealista puro, allievo di don Luigi Sturzo e ammiratore di Danilo Dolci e di Giorgio La Pira – non fu eletto per una manciata di voti, e andò avanti per anni a recriminare invano contro gli “infami brogli democristiani” che avevano favorito un suo collega di partito, già legato mani e piedi ai comitati d’affari della provincia di Trapani).
Ma torniamo al poeta. Da lui ci aspettavamo un libretto, un opuscolo stampato. E invece don Giulio mantenne la promessa a modo suo, cioè con una sorpresa. Aveva faticosamente ricopiato apposta per noi, con la macchina da scrivere, una buona dozzina dei suoi più strambi componimenti, che dovevano risalire ad ancor prima degli anni Venti, firmandoli in fondo con tremante calligrafia. E li porse a mio padre con un gesto di rispettosa noncuranza, dileguandosi poi nella folla del Cassero all’urgente ricerca, disse, di una speciale granita al caffè.
Quei fogli di carta scritti a macchina decretarono una svolta nella vita intellettuale mia e di mio fratello. Sandro, in particolare, ne rimase colpito, e come subito dirò ne ebbe poi a patire perfino delle imprevedibili conseguenze. Le poesie di don Giulio non avevano alcun senso. Erano un puro e semplice gioco di parole, o per meglio dire di suoni o di gargarismi vocali, combinati tra loro per il solo gusto dell’assurdo e di una burlesca musicalità. Quei fogli purtroppo andarono perduti, ma qualche raro verso mi echeggia ancora nella memoria, come nel caso di una specie di sonetto, ridicolamente dedicato a una “frenolitica suonatrice di ukulèle”, che cominciava così:
Con il temblòre delle naccarèse
tu parègli di salga e frenolìa,
e ti glutemi alle glomenti drese
della tua gandurìa.
Tu plenti le rumaglie e le cuplene
in una scaramanda di afrirìa
e contapigli le maglianti altene
oltre la parablìa…
Mille ipotesi si scatenavano intorno a quegli enigmi verbali. Erano lampi di genio, o di follia? Erano lazzi giocondi, o segnali oscuri di disperazione? Allusioni coscienti e abilmente artefatte, o sfoghi automatici di una vuota ubriacatura? Dopo tanti anni, confesso che la questione non mi si è ancora risolta. E di sicuro mio padre non tentò mai il minimo sforzo per venirne a capo. Così, com’era inevitabile, la faccenda non fece altro che tradursi in risate, e in estenuanti gare di imitazione creativa. Importammo quella cretineria a Milano, e con nostra sorpresa ci accorgemmo che la mania rischiava di diventare contagiosa. Amici e parenti si sbellicavano dalle risa. Arrivammo al punto, io e Sandro, di partorire un abbozzo di dizionario di quella lingua strampalata – il giulianchese – dove “uomo”, per esempio, si diceva “cabadocco”, “zio” diventava “calpurnio”, i “tram” erano i “vaterpini” e via di questo passo in una grandinata di stupidaggini che fecero piangere dal ridere non solo noi che le creavamo, ma anche le persone più serie e insospettabili, come il padre di un nostro amico che abitava in viale Zara, ed era uno stimatissimo medico, primario nel reparto di cardiologia all’ospedale di Niguarda. Ricordo ancora come il pover’uomo si rotolò sul divano della sala di casa sua, quando mio fratello gli recitò, in toni drammatici, una delle poesie velatamente “religiose” di don Giulio Anca, che al culmine di un’esilarante litania invocava per varie volte:
Flighelèle rei, flighelèle mei!
E tuttavia anche quello, come tanti giochi di questa vita ingrata, ebbe alla fine una conseguenza catastrofica. Il genio di Giulio Anca nascondeva un lato demoniaco? Sinceramente, noi non ce n’eravamo ancora accorti. Ma disgraziatamente il nostro generoso babbo, che nonostante lo smacco democristiano non aveva perso la fiducia in tutto ciò che odorava di chiesa, si ostinava a investire una ragguardevole quota del suo stipendio per mantenere agli studi me e mio fratello in un prestigioso istituto cattolico di Milano. Dovrei a questo punto aprire una parentesi sul bigottismo inaudito che imperava allora in quella scuola di ipocriti baciapile: la loro concezione della fede era tale da indurre anche le menti più ricettive a ipotizzare l’idea di una conversione all’animismo sciamanico dei tungusi siberiani, o all’ateismo più estremo. Ma forse non è il caso di divagare in tal senso. Basti rievocare i fatti di quella giornata surreale, così come mi furono narrati da mio fratello e dal suo fido compagno di banco Massimo Santini.
Doveva essere una mattina di marzo. Nella classe di Sandro – una prima ragioneria – cominciò a serpeggiare una strana ondata di cretineria. I ragazzi si passavano di mano in mano un misterioso foglietto, dandosi gomitate, bisbigliando e contorcendosi nello sforzo di trattenere le risa. Fratel Boemondo, il tetragono professore di lettere e di religione, li lasciò fare allibito per dieci minuti, poi scese come un toro da corrida dalla cattedra e strappò di mano il foglietto a un ragazzo, accompagnando la manovra con un sonoro scapaccione. Tornò in cattedra, inforcò gli occhiali, dispiegò il foglietto. E vi lesse delle cose incredibili: parole senza senso, diavolerie da manicomio… velate sconcezze, forse. Ma sì, certamente: dovevano essere per forza delle oscenità subdolamente camuffate in un linguaggio segreto!
«Chi ha portato in classe questo lurido foglio?», gridò.
Gli sguardi dei ragazzi si volsero in una certa direzione. Boemondo scese di nuovo dalla pedana, si mosse verso il banco su cui convergevano i sospetti. Arrivò, con la sua tonaca nera, a sfiorare d’un millimetro la faccia di Sandro, e si piantò così per un minuto, quasi soffocandolo, e senza dire una parola. Era una tecnica terroristica assai ben sperimentata. Poi si scostò di un metro e lo fissò negli occhi: Sandro era bianco come un cencio lavato nella candeggina. Lo arpionò per il colletto e lo tirò fuori dal banco pescandolo come un pesce già morto.
«Hai scritto tu quelle sconce idiozie sul foglietto?».
«No, io…».
«Avanti, parla, vigliacco: osi negare? Riconosco bene la tua calligrafia microscopica. La suonatrice di ukulèle… aaah! Sei sempre stato uno stravagante, ma ora hai passato il limite. Confessa!».
«Volevo dire, lo giuro, non ho scritto io quelle frasi…».
«Osi anche giurare? E allora chi è stato? Un ubriaco di passaggio? O sono stato io?».
«No, è stato don Giulio Anca».
«Don… chi? Vuoi prendermi in giro? Maledetto, vorresti anche insinuare che è stato un sacerdote, magari il tuo parroco?».
«No… è… un poeta di Marsala».
I ragazzi scoppiarono a ridere, ma fratel Boemondo triplicò la sua collera. Cacciò Sandro dalla classe, lo spedì dal preside con una nota di biasimo, gli rifilò un cinque in condotta e lo condannò a tre giorni di sospensione. Mio fratello non si riprese dal trauma: cadde in un vero stato di disperazione, rifiutò l’istituto privato, fu bocciato, e l’anno seguente convinse mio padre a mandarlo in una scuola statale.
Pochi anni dopo, tornando come al solito a Marsala in estate, venimmo a sapere che Giulio Anca era morto in giugno d’un colpo apoplettico, mentre cercava un po’ di fresco sotto gli alberi della villa comunale. Ma anche nell’estrema fase della sua vita aveva saputo distinguersi dal gregge umano a modo suo. Resosi conto che i libri della sua vasta biblioteca non gli servivano più, un giorno decise di liberarsene lanciandoli dalla finestra sulle teste dei passanti. Riuscì a scaraventarne in piazza alcune dozzine, dei quali non pochi di grosso volume, mentre ogni tanto farneticava che il mondo ne aveva abbastanza di tutte quelle vecchie balle stampate.