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22/03/2012 08:48:13

Che valore ha il futuro per un cristiano?

Sia l’affermazione sia la domanda scaturiscono dall’impressione che il nostro lettore evidentemente ha, secondo cui il  cristianesimo odierno è tutto concentrato sul presente in maniera esclusiva, come se ci fosse solo la terra e non il «cielo», solo l’al di qua e  non l’aldilà, solo la città dell’uomo e non la città di Dio, solo il tempo e non l’eternità, solo il presente e non il futuro. In un simile quadro, è comprensibile che al centro della predicazione della chiesa ci sia una sorta di «evangelo secolare » che si occupa essenzialmente del  mondo e dei suoi problemi e di come i cristiani possono contribuire, se non a risolverli, quanto meno ad avviarli a soluzione. Ma prima di  affrontare la domanda – serissima – del nostro lettore dobbiamo rispondere a quest’altra domanda: l’impressione che il nostro lettore ha  del cristianesimo contemporaneo è corretta? Corrisponde alla realtà? La situazione è effettivamente quella che egli descrive? A questa  domanda credo si debba dare una risposta affermativa: sì, le cose stanno effettivamente così. È vero che oggi di vita eterna (tanto per  accennare a un tema specifico) si sente parlare raramente in casa cristiana, tranne che in occasione dei funerali. Ed è certo che  dell’odierna predicazione della chiesa l’aldilà occupa uno spazio infinitamente più piccolo che l’al di qua. Il peso specifico dell’aldilà nel  «vissuto» dei cristiani d’oggi è sicuramente alquanto esiguo. Lo si evoca nell’ora critica dell’approssimarsi della morte, per poi  dimenticarlo subito dopo. L’orizzonte della fede cristiana sembra essere abbastanza circoscritto all’al di qua, e l’interesse maggiore dei  cristiani d’oggi sembra rivolto più alle «cose visibili» che a quelle «invisibili», contrariamente a quello che afferma l’apostolo Paolo: «Noi  abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo,  ma quelle che non si vedono sono eterne» (II Corinzi 4, 18). Ma perché oggi i cristiani sono interessati più all’al di qua che all’aldilà, più  alla terra che al cielo, più alle cose visibili che a quelle invisibili? Essenzialmente per due motivi. [a] Il primo è che il cristianesimo ha  indubbiamente risentito, in particolare, della critica marxista della religione e (giustamente) non ha voluto ignorarla. Secondo questa critica, come si sa, la religione è alienazione e oppio dei popoli. «I principi sociali del cristianesimo – scriveva Marx nel 1847 – trasferiscono in  cielo la compensazione di tutte le infamie sulla terra e così ne giustificano la perpetuazione ». La religione, secondo Marx, è l’«aroma spirituale» di un mondo ingiusto e diviso, è il complemento celeste di una società oppressiva, il narcotico delle coscienze che le distrae  dalla realtà e impedisce loro di cambiarla. Perciò la critica della società deve cominciare dalla «critica del cielo», di cui si denuncia, oltre al  carattere illusorio, anche la funzione denigratoria nei confronti dell’uomo, costretto, oltre che a subire tante ingiustizie, anche a  riconoscersi peccatore e colpevole. Questa, molto sommariamente, la critica. Il cristianesimo, pur non condividendola, non ha però potuto non risconoscerle una parte di verità, e cioè questa: che la religione può effettivamente funzionare come «oppio », può essere una forza  conservatrice, e persino reazionaria in campo sociale e politico, come è avvenuto diverse volte anche nella storia europea. Cosciente  di questo rischio, il cristianesimo ha cercato di correre, per così dire, ai ripari e ha sviluppato un ampio e approfondito discorso sull’«impegno politico del cristiano» che ha portato i suoi frutti, maturando un nuovo senso di responsabilità verso la città  dell’uomo, che è diventato prevalente rispetto all’interesse per la città di Dio. [b] Il secondo motivo che spiega il fatto che i cristiani oggi  parlano più dell’aldiqua che dell’aldilà è che dopo la rivoluzione copernicana, che ha radicalmente modificato la nostra visione  dell’universo, è diventato molto più difficile per chiunque, e tanto più per i credenti abituati al linguaggio biblico, rispondere alla semplice  domanda: Dov’è il cielo?, e a quest’altra: Che cosa diciamo, propriamente, quando parliamo di «aldilà»? Ecco che cosa dice in proposito  il teologo luterano Gerhard Ebeling: «Dio non è là dove è il cielo, ma il cielo è là dove è Dio. Perciò la raffigurazione di uno spazio fisico  va completamente in frantumi, non per necessità apologetica, ma per necessità interna. Il cielo è dappertutto e in nessun luogo. È  dappertutto nel senso dell’onnipresenza di Dio, benché questa non sia automatica, ma dipenda sempre dalla libera volontà di Dio. Ma il  cielo non è in nessun luogo, nel senso di un Dio legato a una sede o a un ambito chiaramente circoscritto, benché ogni luogo possa  diventarlo ». Ma proprio questa delocalizzazione del cielo (se così la vogliamo chiamare), e quindi dell’aldilà, complica le cose e rende più  difficile ogni discorso in proposito. L’aldilà può anche essere nell’aldiqua, come del resto suggeriva Dietrich Bonhoeffer con la sua  formula «trascendenza nell’aldiqua». Trascendenza, sì, ma non nell’aldilà, bensì nell’aldiqua; cielo, sì, ma non chissà dove oltre le nuvole, bensì su questa terra. Ora però devo rispondere alla domanda del nostro lettore: «Che valore ha il futuro per un cristiano?». La  risposta non è difficile: secondo il Nuovo Testamento, il futuro ha un valore centrale, assoluto. La fede cristiana è letteralmente sostanziata  di futuro, come dice la Lettera agli Ebrei: «La fede è sostanza di cose sperate » (11, 1), cioè la fede si nutre di ciò che spera, e la  speranza è la presenza del futuro nella vita dell’uomo. Ma il futuro sperato, nel Nuovo Testamento, ha due dimensioni: una ravvicinata,  vissuta qui e ora, e una meno immediata, situata oltre il confine della morte. Lo si vede bene nell’annuncio del Regno da parte di Gesù. Da  un lato questo Regno è vicino, anzi è «giunto fino a noi» (Matteo 12, 28), è «in mezzo a voi» e forse persino «dentro di voi» (Luca  17, 21). Tutte le parabole del Regno raccontate da Gesù lo collegano a realtà terrestri (il lievito nella pasta, il seme nella terra, il tesoro nel  campo, i pesci nella rete, e così via), proprio per indicare che il futuro di Dio non è remoto ma prossimo, si è avvicinato al nostro presente, lo vuole incontrare, illuminare, trasformare. «Il mio Regno non è di questo mondo » dice Gesù a Pilato, ma è in questo mondo, come io sono qui davanti a te, ed è per questo mondo, perché «è per questo che io sono venuto nel mondo» (Giovanni 18, 37). In questo senso è giusto e necessario che la fede s’interessi a questo mondo, non però per appiattirsi su di esso, ma per discernere in esso la  misteriosa vicinanza del Regno e costruirvi delle parabole del Regno. Oggi la chiesa parla del mondo più che del Regno di Dio nel mondo,  e si accontenta di raccontare le parabole del Regno invece di costruirne lei di nuove nel cuore del mondo. D’altro lato però il  Regno che, come abbiamo visto, è una realtà presente in quanto vicina, è anche un regno da «ereditare» (Matteo 25, 34; I Corinzi 6, 9;  Galati 5, 21), dunque nettamente futuro. In tutto il Nuovo Testamento il futuro di Dio si colloca anche oltre il confine della morte, come  testimoniano la risurrezione di Gesù e tante sue parole dette quand’era in vita, come ad esempio questa: «Nella casa del Padre mio ci  sono molte dimore… io vado a prepararvi un luogo» (Giovanni 14, 1-2). Proprio l’evangelo di Giovanni nel quale Gesù trasferisce nel  presente la stessa vita eterna, quando dice: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato»  (Giovanni 17, 3), è anche l’evangelo che annuncia un futuro oltre la morte: «Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che  dura in vita eterna» (6, 27); e ancora: «Chiunque vive e crede in me – dice Gesù a Marta – non morrà mai» (11, 26). Gli fa eco l’apostolo  Paolo: «Se abbiamo sperato in Cristo solo in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (I Corinzi 15, 19). In  conclusione: il nostro lettore ha ragione quando si chiede se le chiese odierne non «abbiano perso il senso del tempo di Dio». Forse non  l’hanno perso del tutto, ma sicuramente si è in loro alquanto appannato. È necessario ritrovare un equilibrio tra quello che possiamo chiamare «l’evangelo del presente» relativo a questa vita, a questo mondo e alla responsabilità del cristiano qui e ora nei confronti della città dell’uomo, e «l’evangelo del futuro» relativo alla vita eterna e alla città «non fatta da mano d’uomo, eterna, nei cieli» (II Corinzi 5, 1), preparata da Dio, che già Abramo, pellegrino in terra straniera, cercava e desiderava, considerandola «migliore» (Ebrei 11, 16). Questo equilibrio oggi non c’è. È urgente ritrovarlo.   Paolo Ricca - da 'Riforma' del 23 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com  



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