L’intero contenuto del Corano, secondo un apologo sûfî, sarebbe espresso nel suo primo versetto, la Basmalà, e il contenuto della Basmalà sarebbe espresso dalla sua lettera bâ iniziale, e il contenuto della bâ sarebbe tutto racchiuso nel puntino diacritico ad essa sottostante. In quel puntino “c’è quel che c’è”.
Una carta nautica del Canale di Sicilia, diversi anni fa, mi pose di fronte allo stesso paradosso di Rûmî. V’era segnato, a mezza via tra la costa sicula e l’isola di Pantelleria, un cerchiettino di minime proporzioni, con un puntino al centro, che una scritta accanto indicava come Banco di Graham, profondità otto metri. Sapevo che quelle scarne indicazioni nascondevano una storia di sconcertante complessità; una storia antica, segreta, ma esplosa per breve, brevissimo tempo alla luce del sole, tra il luglio e il dicembre del 1831, e poi ricaduta nel nulla di quel cerchiettino, là dove “c’è quel che c’è”, e dove altro non può esservi.
E pensai, sulla scorta di un esile opuscolo stampato a Trapani in quell’epoca lontana, di rinarrare quella vicenda, tingendola magari di colori fantastici. Ne nacque un lungo racconto visionario, che abbandonai, dopo anni di rielaborazioni e di ripensamenti, nella cassapanca delle “cose che non tornano più”. L’opuscolo in mio possesso s’intitolava bizzarramente Storia dell’Isola Ferdinanda, e non “Ferdinandea”, come fu stabilito poi da una più sensata tradizione storica. Recava la data del 1831, ed era opera di un tal Salvatore Russo Ferruggia, autore prolifico e studioso sicuramente autodidatta di svariati interessi, se è vero che oltre a occuparsi di chimica e di geologia poté anche dare alle stampe non pochi testi di economia, di agronomia, di archeologia, e perfino una serie di elogi funebri in onore di alcuni personaggi trapanesi. La copia dell’opuscolo finita nelle mie mani era stata dedicata dal Ferruggia, con eleganti svolazzi di penna, al “Reverendo Sacerdote Don Vincenzo Titone”. Curiosa era anche la noterella commerciale che si poteva leggere in carattere corsivo sulla quarta di copertina:
Questo Opuscolo si trova vendibile presso l’Autore, in Trapani, via Spedale de’ Pellegrini N° 36, secondo piano; per tarì due; e nel negozio del Sig. Lanzarone, in Via Grande N° 3g.
E in esergo allo scritto scintillava una perfetta citazione delle Georgiche virgiliane:
Felix qui potuit rerum cognoscere causas (Felice chi poté conoscere le origini delle cose!).
Poi, nel 1984, Salvatore Mazzarella pubblicò presso Sellerio Dell’Isola Ferdinandea e di altre storie: uno studio pregevole e garbato, che alla finezza dell’intendimento (poetico e scientifico, e come si potrebbe altrimenti?) univa una messe di informazioni storiche che io certo, sull’unica scorta del Ferruggia, non avevo mai posseduto. Il cerchiettino, così, si era molto amplificato, intorno al sogno dell’isola vissuta per mezzo corso di eclittica solare. E proprio per questo pensai che non sarebbe stato inutile tornare con rapido volo su quella storia, come per fissarne in un breve diario le fasi capitali. Le righe che seguono sono quindi il risultato, frettoloso, inadeguato, di quel proposito lungamente sedimentato nella fantasia.
Notte dell’otto luglio 1831. Un brigantino salpato da Malta solca le onde inquiete del Canale di Sicilia, a una ventina di miglia dal porto di Sciacca, sfiorando a settentrione la Secca dei Coralli, sorta di Triangolo delle Bermude dove il mare, ricchissimo di pesce, ha il vizio di incollerirsi a ogni impennata di vento scagliando flutti improvvisi ad altezze imprevedibili. Al chiaro di luna, il capitano Francesco Trefiletti, che comanda il vascello, lancia uno sguardo di sfida in direzione della Secca, e in cuor suo non vede l’ora di oltrepassare il Capo Boeo e scivolare finalmente nelle acque sicure di Castellammare del Golfo e di Capo Gallo, fino al porto di Palermo dove getterà l’ancora.
Ma qualcosa di straordinario accade tutt’a un tratto. Il capitano non crede ai suoi occhi. Vede il mare sollevarsi, a distanza di poche miglia, in un’apocalittica colonna alta varie decine di metri, mentre tutt’intorno si leva un denso fumo che non tarda ad annebbiare il cielo oscurando il chiarore lunare. Scrive Ferruggia: «Questa colonna o massa d’acqua, come la disse l’osservatore, superava il diametro di un vascello, gorgogliava circa dieci minuti, si abbassava; e nell’abbassarsi della medesima, un gran fumo denso innalzavasi, che l’orizzonte tutto ingombrava. E un tal fenomeno replicava ogni quindici, venti e a trenta minuti».
Nell’aria comincia allora a diffondersi l’acre odore delle esalazioni solforose. Il brigantino danza paurosamente tra i flutti del maremoto, il fumo si fa ancora più denso, e lo spettacolo delle colonne d’acqua si ripete senza fine. Ma il naviglio fugge e si allontana. Il dieci luglio, a Palermo, il capitano Trefiletti racconterà agli ufficiali del porto l’accaduto, rischiando di essere preso per pazzo.
Tredici luglio. Il racconto del capitano riceva drammatica conferma. Davanti alla Secca dei Coralli, i pescatori di Sciacca e di Mazara e gli osservatori accorsi da vari porti della Sicilia assistono tra la meraviglia e il terrore alla nascita di una nuova isola, tra i boati e i bagliori pirotecnici di una tremenda eruzione vulcanica sottomarina. La Secca era in realtà un mostro addormentato, la vetta di un vulcano che da tempo immemorabile giaceva nel letargo di una morte apparente. In epoche ancestrali doveva essere emerso, e poi esploso, in qualche immane sconvolgimento paragonabile a quello che, in tempi storici e documentabili, aveva disintegrato l’isola di Thera e annientato la civiltà minoica di Creta.
La nube che si spande nel cielo è presto in balìa di un forte vento di scirocco che la trascina verso nord-ovest, effondendo il fetore dello zolfo fin sulle campagne di Mazara e di Marsala, e fino a Trapani, come annota il Ferruggia. Sconvolgenti sono le doglie della terra: la nascita della nuova isola è accompagnata da brevi e violente scosse di terremoto, che raggiungono Pantelleria e la fascia costiera siciliana.
Dai porti di Sciacca, Marsala, Mazara e Girgenti, da Malta e da scali più lontani, piccole compagnie di curiosi, di studiosi e di arditi si avventurano nelle insidie del Canale di Sicilia, seguendo le indicazioni fornite dai primi emozionati racconti. Da Marsala parte il re del vino: «Il signor Giosuè Ingham con altri suoi amici inglesi», riferisce il Ferruggia, «osservò il vulcano. Assicurano di aver veduto un’immensa quantità di fumo, di arena e ceneri, che formavano i più belli scherzi nell’aria, e che le materie eruttive cadevano a tutte le direzioni; ma non videro dessi fuoco, né sentirono fragori. L’isola allora aveva da circa un miglio di circonferenza ed era dodici piedi sul livello del mare».
Venticinque luglio. Precisi come nel loro stile, arrivano in équipe gli studiosi tedeschi, che grazie all’attenuato impeto dell’attività eruttiva possono avvicinarsi all’isola fino a poche centinaia di metri e compiere accurate osservazioni scientifiche. Il nero scoglio fumante è ormai quasi all’apice della sua consistenza. Di lì a poco misurerà settanta metri di massima altezza e un perimetro di quasi quattro chilometri, con un cratere centrale di duecento metri di diametro. È un’isola a tutti gli effetti, anche se, per ora, solo un gabbiano ha avuto il coraggio di posarvi le zampe.
Verso la fine del mese, i visitatori che ronzano intorno al neonato lembo di terra celano tutti una speranza nel fondo dei pensieri: toccare quell’isola per primi, e piantarvi, come Colombo nelle Nuove Indie, le insegne di un qualche Potere. «Per quale ragione», scriveva Paracelso, «l’uomo è bramoso di mangiare, se non perché è fatto di terra?».
Due agosto. Proveniente da Malta, giunge in vista dell’isola il capitano Senhouse, suddito della Corona britannica. Senza testimoni, il solitario esploratore sbarca (così egli giurerà) su quella terra inviolata, ne compie il giro lungo la costa, la studia con calma tutta inglese, ha perfino il coraggio di avvicinarsi al cratere che ancora fuma e debolmente erutta, e infine, fatalmente, pianta salda su quel suolo la Union Jack, battezzando l’isola col nome di Graham, per la gloria dell’Inghilterra. La notizia giunge in fretta alle orecchie del giovane Ferdinando II, da pochi mesi sovrano delle Due Sicilie. Il re, che da poco è rientrato a Napoli da una lunga visita in Sicilia, incarica subito il geologo Carlo Gemmellaro di compiere un’ispezione sul suolo dell’isoletta, e di prenderne possesso nel nome dei Borboni.
Undici agosto. Gemmellaro visita l’isola, vi pianta l’insegna borbonica e la ribattezza col nome di Ferdinandea. Si accorge, però, che quella nuova terra ha qualcosa di fragile, d’inconsistente, quasi d’irreale. Non è di pietra lavica, ma di ceneri, di pomici, di rocce porose, schiumose, leggere. E scrive nel suo rapporto: «Le pareti dell’isola saranno corrose alla base, e cadranno in rovina: la costa di Sicilia sarà ripiena del materiale che la formava, e in pochi anni le barche passeranno sopra la base di quel cratere medesimo, che oggi spaventa chi vorrebbe avvicinarlo soltanto».
Eppure, il 17 agosto Ferdinando II, con atto sovrano, incorpora l’isola nei possedimenti del Regno. E i disegni dell’isola, eseguiti da esploratori italiani e stranieri, e risalenti a quegli stessi giorni, ci mostrano una terra in apparenza salda, un monte dalle impervie pareti scoscese, imponenti. Un cratere fumigante e romanticamente infernale, in una tempera dell’inglese Wright; una rupe compatta, veemente, simmetrica e slanciata nel cielo afoso e cinerino come una mistica cattedrale, nelle vedute del Marzolla. Osservando quelle raffigurazioni non si riesce a immaginare come il Gemmellaro potesse, con tanta sicurezza, formulare le sue scettiche previsioni. Del resto, Senhouse non aveva forse “conquistato” l’isola giudicandola ormai come una terra solida e permanente?
Settembre. E invece la corrosione, lenta, avanza. Ancora invisibile. Solo verso fine mese il dissolvimento si fa visibile. I disegni del francese Constant Prévost, che ritrae l’isola in quei giorni, sono di una desolante eloquenza: la gran rupe, la costa selvaggia sembrano svaporare nella bruma. Eppure l’isola ha sempre tanti, e perfino crescenti, estimatori e aspiranti conquistatori, che dopo i nomi di Graham e di Ferdinandea gliene affibbiano altri, sperando di affidarli all’eternità: Proserpina, Corrao, Sciacca, Giulia, Nerita, Hotham… e intanto nell’aria aleggia lo scontro diplomatico, la contesa internazionale incalza. La questione dell’appartenenza territoriale è ben lungi dall’essere risolta, dopo l’atto unilaterale di re Ferdinando. Si arriverà a sparare dei colpi di cannone, per l’isola dagli otto nomi?
Ottobre. Ora il vulcano tace. Non un filo di fumo si leva dal cratere in rovina. L’isola è stanca, e come una fanciulla troppo rudemente corteggiata si lascia andare, spegnendosi, per vezzo altero, o per disgusto, in un fatale abbandono. Troppi l’hanno desiderata per la pura smania del possesso, e scioccamente hanno creduto di averla conquistata. Ora il tempo muta, i primi venti autunnali soffiano minacciosi, tramontana e maestrale sollevano ondate che aggrediscono i contrafforti dell’isola. «Ed il mare avanzavasi», riferisce un altro esploratore, «rodendo e sciogliendo le scorie e le ceneri, sì che di giorno in giorno e di ora in ora iva menomando il perimetro e cangiando l’altezza della sommità, e tutta l’isola mutava la sua forma».
Novembre-dicembre. Nessuno si occupa più dell’isola. L’erosione marina l’ha ridotta a un malcerto faraglione, assediato dai flutti al centro della famigerata Secca dei Coralli. Francia, Inghilterra e Due Sicilie non litigano più per rivendicare il possesso di quel rudere inutile e fastidioso. E il 28 dicembre, a meno di sei mesi dalla notte in cui il capitano Trefiletti l’aveva vista proiettarsi verso il cielo, l’isola s’inabissa di nuovo, e per sempre, nella tenebra del mare. E forse mormorando, come Euridice al suo Orfeo: «E ora addio, io mi sento riportare nella notte immensa che mi circonda».
Massimo Jevolella