Ma quando il sovietico Cislenko, nello stadio britannico di Sunderland, al tredicesimo del secondo tempo infilò la porta di Albertosi con una legnata micidiale, un gelo carico di nefaste premonizioni calò sulla Penisola, scorrendo come un brivido da Lampedusa alla Svizzera Ticinese. Anche il telecronista Nicolò Carosio rimase muto per una dozzina di secondi. Nella saletta piena di fumo dell’Hotel Stella d’Italia, a Marsala, nessuno osò fiatare. Tranne mio padre: «Dovevamo aspettarcelo. I comunisti ci futtirannu in ogni campo, è solo questione di tempo. I nostri calciatori guadagnano miliùna e sunnu lagnusi e sturdùti. Chiddi russi hàvinu lu stessu stipenniu di l’operai, e sunnu picciotti sani chi ghiocanu pi’ ppassiuni».
«Avìti raggiùni, ‘ncignéri», commentò il cartolibraio Pellegrino, che aveva chiuso il suo negozio all’angolo del Cassero per guardarsi la partita, mangiando magari cannolicchi e sorseggiando acqua e zammù.
Mio padre, a Marsala, era un’autorità indiscussa in ogni campo dello scibile umano. Un giorno un vigile urbano aveva appizzato una multa per sosta vietata sul parabrezza della nostra Millecento D. Quando gli dissero che la vettura targata Milano apparteneva all’ingegner Jevolella, si affrettò a ritirarla e stracciò il foglietto in otto pezzettini, esclamando: «Sicuru mi sbagghiài, certamente ‘u ‘ncignéri havi raggiuni».
Proprio nella mattina di quella partita fatale, io e mio fratello avevamo notato all’ingresso dell’albergo una curiosa targa di plastica bianca con una scritta blu a caratteri cubitali:
QUI RICEVE IL MAGO D’EUROPA, VEGGENTE, CHIROMANTE, MAESTRO
DI PENTACOLI E TAUMATURGO DEI CUORI
Sandro ci fece la sua solita risatina. Io invece mi sentii colpito come da una misteriosa scossa elettrica. Il portiere mi disse che il mago veniva da Catania, era famoso e ci andavano di nascosto molte signore di Marsala, anche quelle perbene del Club dei Canottieri. «E perché?», gli chiesi ingenuamente. Lui mi guardò come si guarda un povero fesso. Io non capivo. Lui mi fece il gesto delle corna. Ma io ero cretino completo, e non capivo ancora. Allora si spazientì: «Vogliono sapere se sono cornute!», e scoppiò a ridere.
Il veggente di Catania aveva preso alloggio in una camera al primo piano dell’hotel, giusto di fianco al mitico ponticello sospeso sulla strada. Chiedeva solo mille lire per la consultazione. Nel tardo pomeriggio, al termine della partita, non so perché, ci andai. Fu un impulso incoercibile. Come quegli atti assurdi e suicidi che si commettono nei sogni o nelle crisi di pazzia. Bussai debolmente alla stanza dodici. Il mago d’Europa mi accolse con un mezzo ruggito. Era un tipo scorbutico, grosso, di pelle olivastra, capelli unti e barbetta caprina. Avrà avuto una cinquantina d’anni. Aveva sistemato un tavolino di legno scuro rettangolare al centro della stanza, davanti alla finestra, e in mezzo al tavolo aveva piazzato una sfera di cristallo e un mazzo di tarocchi. Accanto alla finestra aveva appeso un turibolo fumigante d’incenso, e un quadretto con una vecchia stampa che raffigurava San Giovanni Battista nel Giordano. Capii subito che la mia comparsa gli dava fastidio.
«Sei un ragazzino, che vuoi?».
«Perché, non posso?».
Il mago esitò. «Va, va… assettati, puoi. Ma dimmi, che vuoi? E ce l’hai le mille lire?».
Io mi frugai in tasca, avevo racimolato la somma rinunciando al latte di mandorla e ai cannoli di De Gaetano. Misi le monete sul tavolo. Lui se le mise in tasca, ma continuò a guardarmi con aria sospettosa e spazientita. Io, muto. Lui andò al sodo: «Ma insomma, si vede bene che tu hai una ragazza… è vero?».
«È vero».
E qui accadde l’imprevedibile. Anzi, l’incredibile. Il mago mi fissò per un minuto con uno sguardo grave e ispirato, che non potrò mai dimenticare, e alla fine sentenziò: «Tu hai sedici anni, e lei si chiama Giuliana e ne ha tredici».
Restai alluccuto, a bocca aperta come un lappano appena tirato sul molo; il mio debole comprendonio annaspò in una tenebra totale, come accecato da un lampo di luce troppo violento e improvviso.
«E… e come fate a sapere queste cose?».
«Sono i poteri occulti della telepatia magnetopsichica e paragnostica».
«E… di lei… di Giuliana intendo, che cosa mi sapete dire?».
Il mago scrutò la sfera e consultò le carte.
«Ti devi affrettare».
«Affrettare? Che significa?».
«Vedo un passaggio oscuro… ti posso solo dire che con lei non devi più aspettare. Non c’è altro rimedio se te la vuoi legare».
«Legare… io non capisco… lei mi ama!».
«Non basta più quello che chiami amore, ma più di questo non ti posso dire».
«Per Dio, e che altro vedete nella vostra sfera magica?».
Il catanese restò a lungo in silenzio. Passò e ripassò le carte tra le mani.
«Vedo un grave incidente nella tua vita futura».
«Incidente… stradale?».
«La faccenda è oscura. Ma no, non sarà un incidente stradale».
«E allora?». Pensai a un assassino che mi avrebbe piantato un coltello nel cuore.
«Vedo una specie di orco, un ripugnante figlio delle tenebre, un uomo alto e corpulento, con la barbaccia nera, che ti colpirà a tradimento quando avrai già compiuto i cinquantatré anni».
«Un orco… per Dio… e chi potrà essere?».
«Vedo una cosa con certezza: avrà un nome plebeo, e il cuore sudicio di un sicario».
«Un nome plebeo?».
«Sì, sì… come Porcari, o Vaccari… ma più di questo non ti posso dire. Tu sei un bravo ragazzo, e non ti voglio troppo impressionare».
Mi sentii gelare il sangue. «Vuol dire che mi ammazzerà? Eh, no, e come posso fare a proteggermi da quel porco assassino?».
«Calma, tranquillo, quel figlio di Vaccari non ti ammazzerà veramente».
«Veramente? Che significa? Insomma, mi ammazzerà o no?».
Ancora una volta il mago s’immerse in un lungo silenzio. Poi, all’improvviso, dal volto tremendo passò a un’espressione serena. «Certamente non morirai. Anzi, poi sarai più vivo di prima, mentre lui creperà come un cornuto. Ma… è naturale, vediamo… ti salverai, a patto che tu sia protetto da un potente talismano».
Sgranai tanto d’occhi: «Cos’è?».
«È un’opera d’arte e di alta magia. Non devi mai perderlo. Lo porterai sempre al collo, ma soprattutto allora, quando avrai compiuto i cinquantatré anni… perciò, nel lontano duemila e tre! Mi occorrono almeno tre giorni per fabbricarlo… sei fortunato, perché tra due notti sarà luna piena. E sono sicuro che il rito della fabbricazione sarà potente, e ti garantirà la salvezza».
Allora, per istinto, cominciai a titubare. «E come farò ad averlo?».
«Verrai da me fra tre giorni con in mano quarantamila lire nascoste in un fazzoletto di seta, chiuso con quattro nodi. E non ne devi parlare assolutamente con nessuno!».
Mi sentii mancare. Con quella cifra avrei potuto comprare due centinaia di cannoli da De Gaetano. «Io non ho quarantamila lire. Ne avevo solo mille, e già ve lo ho date».
Il mago divenne sarcastico: «Sì, sì… un signorino di Milano, come te, non ha quarantamila lire? Ad ogni modo, mi spiace per te: vuol dire che affronterai l’incidente senza lo scudo magico dei miei poteri. Adesso puoi andare».
Discesi le scale a passo di cadavere, più pallido d’una crozza dei Cappuccini di Palermo. Andai al Capo Boeo a meditare sulle mie future disgrazie, seduto su uno scoglio punci-natichi, con gli spruzzi delle ondate di maestrale che mi appannavano gli occhiali. Poi tornai all’albergo, e a passo deciso andai a bussare alla camera di mamma e papà. Raccontai a mio padre dell’incontro col mago, per filo e per segno, dicendogli di Giuliana, della profezia e del talismano. Il babbo s’imbestialì, in modo tale che mai l’avrei più rivisto così fuori di sé in vita mia, nemmeno nell’aprile del ’69, quando i poliziotti mi pestarono a sangue e mi trattennero una notte in questura a Milano, dopo avermi pescato con due pietre in tasca nel mezzo d’uno scontro di piazza. Si mise a gridare: «Mago! Talismano! Quarantamila lire! Farabutto, gli spacco le luride corna! Lestofante, imbroglione…».
«Ma papà… ha indovinato il nome della mia ragazza…».
«Tu sei un povero fesso, non conosci le astuzie di questi furfanti!».
Poi, travolto dall’ira, si precipitò dal direttore dell’albergo e gl’intimò di cacciare via il mago “a pedate nel culo”. Il direttore esitò. Allora il babbo salì a tre gradini le scale, bussò con violenza alla porta del mago, entrò nella sua stanza, lo sommerse di insulti e di minacce, gli rovesciò il tavolo con la sfera e le carte, e per un soffio non riuscì anche a sferrargli la famosa pedata nel culo, perché nel frattempo il direttore e un cameriere, accorsi alle grida, lo bloccarono garbatamente per le braccia e lo indussero alla moderazione.
Il mago, accecato dalla rabbia, preparò i suoi bagagli e fuggì dall’albergo senza pagare il conto.
La settimana seguente, durante una gita in barca intorno all’isola di Marettimo, io e mio padre discutemmo di scienza e di filosofia. «Vedi le onde del mare?», disse lui. «L’intera realtà dell’universo è fatta di onde e vibrazioni. Più scavi nella materia, più penetri nell’atomo, e più la materia si smaterializza, mutandosi in onde, radiazioni, particelle impalpabili. Sono i quanti di energia…».
«Vuoi dire che la materia non è materiale?».
«Sì, in un certo senso… la sostanza di cui siamo fatti è sottile, inafferrabile, è… spirituale».
«Stiamo vivendo in un sogno?».
«Un sogno di Dio, lo dicono anche i filosofi indiani».
Ripensai al mago d’Europa. E se non fosse stato soltanto un abile ciarlatano? Se quel fottuto Vaccari non fosse stato un fantasma del suo cervello d’impostore, ma la sottile particella di un atomo del mio destino?