23 novembre 2011
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Rino Giacalone
Per ascoltare i pentiti che hanno parlato del delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno (26 settembre 1988), la Corte di Assise di Trapani – presidente Angelo Pellino – da oggi, 23 novembre 2011, si è trasferita nell’aula bunker del carcere di San Giuliano, sempre a Trapani (per la verità qui è territorio di Erice). La struttura si presta maggiormente alla sicurezza che va garantita a questi testi nonché alle stesse parti in uno dei momenti maggiormente delicati del dibattimento dove sono imputati due conclamati mafiosi, il capo del mandamento di Trapani, Vincenzo Virga, e il valdericino Vito Mazzara condannato all’ergastolo per essere stato autore di diversi delitti ordinati dalla cupola mafiosa. Il primo pentito ad essere stato sentito è stato il pacecoto Francesco Milazzo.
Il soldato che parlava ai capi mafia. Milazzo non è un uomo d’onore qualsiasi e quindi non è un pentito di scarso peso. Impersona l’essere stato mafioso e oggi il non volerlo più essere. Quando descrive la realtà al tempo in cui lui semplice “soldato” di Cosa nostra poteva avvicinare i più importanti capi mafia, ne parla come se ne facesse ancora parte, e così ha raccontato come a fare le “cose brutte” non poteva essere altro chi parlava male dei mafiosi – e non quindi i mafiosi che le “cose brutte” le facevano per davvero, e dunque uno come Rostagno che ogni giorno “insultava i mafiosi e istigava la gente a stare lontano dalla mafia” era uno che diceva “cose brutte” e perciò dava fastidio.
Ucciso perché bruciò la macchina al comandante dei carabinieri. Milazzo era uno di quelli che era cresciuto credendo nell’ordine che Cosa nostra avrebbe potuto dare alla società. Una mafia che addirittura decideva di eliminare un ladruncolo perché questo con le sue ruberie suscitava fastidi e perché aveva bruciato la macchina al comandante della stazione dei carabinieri (tutto questo accadeva a Paceco). Dove lo Stato non poteva arrivare ecco giungere la mafia, che decideva di eliminare quello che in aula, davanti ai giudici, Milazzo ha chiamato ancora “frariciumi”, non ci vuole molto cosa significa, dispregio assoluto, marcandone ancora la qualità come se il fatto fosse appena avvenuto.
Storie dei figli della mafia. Milazzo è cresciuto – affiliato, ritualmente punciutu, appena ventenne – dentro questi canoni, con la convinzione che la mafia potesse davvero essere giusta ed equa. A questo ha creduto fino a quando un giorno non ha visto un capo mafia, Vincenzo Virga, pensare solo per se stesso e per chi gli stava più vicino. A quel punto l’immagine che Milazzo ha avuto della mafia trapanese è stata quella del disordine. E’ stato arrestato sul finire degli anni 90 dalla Squadra Mobile di Trapani, nascosto in mezzo alle campagne di Paceco. Quando finì in manette chiese una corda per uccidersi, poi decise di collaborare con la giustizia e ancora oggi in aula ha spiegato il perché: “Non volevo che i miei familiari finissero nel fango dove ero stato io”. Quello che gli è successo dopo questa decisione non è bello a dirsi e a raccontare, ma dà la dimensione di cos’è la mafia: dapprima la moglie e i figli lo hanno ripudiato, contestando la sua decisione, poi sono rimasti solo i figli a non volere sapere più nulla di lui e della madre che nel frattempo aveva deciso di seguirlo nella località protetta dove era stato portato. Ma la scelta di prendere le distanze non scaturiva da paure di vendette, ma perché riconoscevano (e forse riconoscono, loro come altri giovani ancora purtroppo) una forte autorità mafiosa che nemmeno loro padre poteva metterla in discussione. Per fortuna in questa terra ci sono anche altri segnali, come quelli lanciati, e scritti, l’anno scorso dai figli di un riconosciuto mafioso mazarese, un “colletto bianco”, ex dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Mazara, l’arch. Pino Sucameli, che scrissero il loro distinguo dal padre e di preferire a lui, in carcere oramai con decenni di detenzione da scontare, altri uomini, come Falcone e Borsellino. Poi in questa terra ci sono figli(e) che hanno scelto il silenzio, non si sa se per ubbidienza o altro, come Lorenza Messina Denaro, figlia del latitante Matteo, non ha mai conosciuto il padre, se non in foto, è cresciuta con la madre, Francesca Alagna, nella casa della nonna vedova del “patriarca” della mafia belicina, Francesco, il campiere che faceva il capo della cupola provinciale e sedeva in quella regionale. Lorenza oggi fa il primo superiore, impossibile avvicinarla, in giro a Castelvetrano raccontano che la vedono più con le zie, le sorelle del boss latitante, che con la madre. Poi ci sono altri figli, come quelli dei padrini Vincenzo Virga e Francesco Pace, hanno seguito le orme dei loro genitori, restando a loro fedeli anche quando sono finiti in carcere, i Virga addirittura ancora prima del loro genitore che nel frattempo restava latitante e lo restò per sette anni fino al 2001.
Il “massaro” nella stanza di Corrado Carnevale. Trapani e i “cani attaccati”. A Trapani, emerge dal racconto del pentito Francesco Milazzo, la rete di interessi che esisteva era quella che la mafia voleva. Cosa nostra dettava le regole e l’illegalità diventava legalità. Punire con la morte chi rubava senza autorizzazione era la regola, che faceva contenti tutti. Milazzo ha raccontato di essere stato uno di quelli che aveva il compito di mantenere l’ordine, credendo profondamente nel giuramento che aveva fatto. E così eseguiva i delitti senza chiedere, ricevuto l’ordine entrava in azione. La mafia trapanese incuteva timore perché era una mafia che poteva permettersi uomini d’onore riservati che sedevano sui banchi della politica, come l’ex consigliere comunale del Psi Franco Orlando, uscito assolto da processi in cui era imputato di delitti, ma condannato per associazione mafiosa, secondo Milazzo il “politico” era uno di quelli che camminava armato “e sparava se c’era bisogno di sparare”. Ma quello che “sparava sempre” era Vito Mazzara a sentire Milazzo, portava con se un fucile calibro 12 e una pistola calibro 38, “sempre”: “Mazzara era in gamba a sparare, un professionista, faceva parte della famiglia mafiosa di Valderice, dipendeva da Vincenzo Virga che era a capo del mandamento. Virga fu nominato per volere di Francesco Messina Denaro e di Francesco Messina, mazarese, detto u muraturi”. Ciccio Messina era uno che andava spesso in giro malvestito, con gli abiti sporchi di calce e che però sarebbe stato in grado addirittura di entrare nella stanza del presidente della Cassazione Corrado Carnevale, così si legge in alcuni atti giudiziari, un giudice lo ha riconosciuto, si è ricordato bene di lui perché era vestito da “massaro” e non era certo a tono con l’austerità del luogo, e però parlava a quattr’occhi con Carnevale. “Virga era l’unico che poteva prendere questo incarico – ha detto Milazzo – le cose sembravano andare bene con lui”. Virga riuscì dove oggi la politica trapanese ancora non riesce. Trapani ed Erice sono due Comuni che vivono nello stesso territorio, a parte la medievale vetta ericina,l’antico borgo che sta sulla sommità della montagna di San Giuliano, Erice per l’appunto, il resto delle case sono tutte a valle, in un’area che si estende dai pendici della montagna sino alla falce trapanese, un solo territorio, due Comuni. Da anni si insegue la possibilità di fare un solo Comune, ma l’obiettivo puntualmente fallisce, Virga invece con un tratto di matita un giorno decise che le famiglie “mafiose” di Trapani ed Erice dovevano diventare una sola cosa. E così accadde. Paradossalmente è stato rispondendo alle domande della difesa che Milazzo è stato più efficace nel descrivere cos’era la mafia a Trapani. “La mafia faceva tutto e non si faceva niente se la mafia non lo voleva”. E quindi un delitto come quello di Mauro Rostagno non poteva avvenire così senza che Cosa nostra fosse informata e coinvolta. Dalla parte della mafia c’era poi una grande opportunità che Milazzo non ha nascosto: “Non c’era bisogno di spiare, non avevamo bisogno di chiedere niente, le stesse istituzioni ci informavano su cosa accadeva”. Sembra sentire lo slogan di un vecchio spot pubblicitario. In questo si diceva che un determinato profumo lo poteva usare “un uomo che non doveva chiedere mai”, nel caso di Cosa nostra il profumo era quello della mrote e del sangue dei morti ammazzati che si portava appresso una mafia “che non doveva prendersi il disturbo di chiedere qualcosa ma le si faceva sapere tutto quello che doveva conoscere e pure subito”. E sembra di risentire il pentito di Caccamo, Giuffrè ,che parlando della mafia trapanese diceva che “a Trapani Cosa nostra era tranquilla perché aveva i cani attaccati”, cioè inquirenti e investigatori non davano fastidio. Almeno questo tra gli anni 70 e 80.
Nel circolo Pri conobbe Virga. Il borgo di Trapani, a cavallo tra Erice e Trapani, dove passa quella invisibile linea di confine che divide i due territori, per decenni è stato il feudo del partito repubblicano. Qui è cresciuta la migliore tradizione del partito dell’Edera, i protagonisti bene interpretavano il credo mazziniano, “Dio e Popolo”, a Borgo cresceva un partito popolare, che riuscì anche a mandare propri esponenti in Parlamento. Dove c’è il potere però si nasconde sempre la mafia, e Vincenzo Virga si era fatto una nicchia dentro quel partito. Frequentava il circolo dedicato a Mazzini, dove i giovani repubblicani più volte tenevano conferenze contro la mafia in tempi in cui c’erano sindaci che negavano l’esistenza della mafia a Trapani. Francesco Milazzo ha detto di avere avuto presentato Vincenzo Virga dentro quel circolo repubblicano e di avere conosciuto anche lì il vice di Virga, un altro imprenditore, Francesco Genna.
Gli escamotage di Vito Mazzara. Ancora rispondendo alle difese, ma stavolta anche prima ai pm Francesco del Bene e Gaetano Paci, il pentito Milazzo ha rammentato le abitudini del conclamato killer Vito Mazzara che senza fare una smorfia ha seguito l’udienza da una delle celle dell’aula bunker. Era lui ha detto Milazzo a prepararsi le cartucce, sapeva sovraccaricarle, gli confidò un giorno che sostituendo una parte del fucile riusciva a non fare risultare che a sparare era sempre la stessa arma. “Sapeva sparare e sapeva come modificare l’arma”. Poi ha fatto l’elenco dei delitti commessi insieme, ripetendo sempre che c’erano gli stessi rituali da fare, i sopralluoghi sui luoghi dove si doveva sparare, l’uso di una Fiat Uno, le armi da impiegare. Ha raccontato che con Vito Mazzara in qualche occasione il gruppo di fuoco era armato di tutto punto, con fucili, mitraglie, pistole. Ha fatto i nomi di chi apparteneva a questi gruppi di fuoco, ce ne erano a Trapani, Paceco, a Valderice, in provincia, sempre pronti ad entrare in azione. Ad affiancare Vito Mazzara secondo Milazzo spesso erano Franco Orlando o ancora i valdericini Nino Todaro e Salvatore Barone. Poi ce ne erano altri ancora. Lì la difesa con l’avv. Vito Galluffo, difensore di Mazzara, ha cercato di raccogliere un punto a suo favore, dopo avere fatto fare al pentito nuovamente i nomi dei “presunti” killer, ha ricordato che molti di loro, se non tutti sono stati assolti. Dai delitti, ma non dall’associazione mafiosa. Milazzo ha risposto senza fare una piega, lui che poco prima aveva fatto percepire con le sue risposte che Virga aveva quasi creato una sua “Cosa Nostra” con uomini d’onore riservati, e che quando si sparava erano in pochi a sapere chi era stato. Come accadde per il delitto dell’agente di custodia Giuseppe Montalto, assassinato l’antivigilia di Natale del 1995, a pochi chilometri da Trapani. I complimenti per quel delitto addirittura se li prese il mazarese Vincenzo Sinacori, quando invece a sparare era stato Vito Mazzara come poi ha ricordato lo stesso Milazzo. Oggi i soggetti elencati in aula da Milazzo sono tutti liberi, hanno scontato le pene detentive e sono tornati in libertà. Se davvero sono specialisti dei gruppi di fuoco non c’è forse da stare tranquilli.
Dovevamo uccidere Linares. Francesco Milazzo aveva conoscenza di una lista di persone che dovevano essere uccise. Uno di questi era l’allora capo della Squadra Mobile, Giuseppe Linares, oggi dirigente dell’Anticrimine della Questura di Trapani. “Doveva essere ucciso, ma Vincenzo Virga ci disse che non era il momento di farlo”. Linares poi nel 2008 fu quello che con le indagini riaprì un fascicolo che stava andando in archivio, quello sul delitto Rostagno.
Rostagno parlava in tv e Mariano Agate diventava nervoso. Rispondendo ai pubblici ministeri, Francesco Milazzo ha ricordato il fastidio che gli interventi televisivi di Rostagno suscitavano dentro Cosa nostra. “Diceva cose brutte (!) contro di noi, ci insultava, istigava la gente a prendere le distanze dalla mafia”. I più nervosi erano i mazaresi. Milazzo si avvicinò tantissimo alla cosca di Mazara, quando le cose a Trapani, sotto il comando di Virga, cominciarono a prendere una brutta piega, nel senso che Virga si occupava dei suoi interessi personali, e non sopportava chi poteva remare contro, come proprio faceva Francesco Milazzo. Frequentando i mazaresi ha detto di avere appreso l’astio che cresceva contro Rostagno. “Non avevo bisogno di scambiarmi delle parole, bastava guardare in volto Mariano Agate e capire”. Le riunioni avvenivano dentro la sede della Calcestruzzi Mazara, l’impresa dei fratelli Agate. “Quando c’erano le riunioni c’erano tutti, nessuno assente, da Paceco gli unici che ci spostavamo eravamo io e Vito Parisi, Vincenzo Virga nemmeno sapeva di queste riunioni. Intuiva che noi andavamo a Mazara e per questo lui nei miei confronti aveva come una spina, e se la voleva togliere”. E come faceva a capire che Mariano Agate era nervoso, ad un certo punto gli è stato chiesto. “Quando diventava nervoso si cambiava in volto e poi non faceva altro che mangiare, mangiava sempre”. Più Rostagno parlava., contro di lui, più Agate si metteva a mangiare. Ma Rostagno, altra domanda, era l’unico giornalista che “insultava” la mafia? “Ogni tanto c’era Bologna (Peppe, avvocato, editore della tv privata Tele Scirocco ndr), il figlio dell’avvocato Salvatore, ma a farlo calmare ci pensava suo padre, e noi eravamo tranquilli”.
Un ordine arrivato da fuori. Di una cosa il pentito Francesco Milazzo si è detto sicuro.e cioè che l’ordine di uccidere Mauro Rostagno venne dato “a Vincenzo Virga” da Francesco Messina Denaro. “Ciccio Messina (u muraturi ndr) mi chiese di fare un sopralluogo nella sede della tv di Nubia, Rtc, dove lavorava Rostagno. Quando gli dissi che tutto era apposto mi rispose che non dovevo essere più io ad occuparmene. Mi sono fatto una idea precisa e cioè quella che l’ordine di uccidere Rostagno arrivò da fuori dalla provincia di Trapani”. Fatti estranei a Cosa nostra? Niente affatto: “Rostagno – ha detto Milazzo – deve avere toccato un nome che non doveva toccare”. Il nome viene sussurrato nell’aula bunker, ed è quello del capo mafia di Mazara Mariano Agate, il boss che stava con un piede dentro cosa nostra e un altro dentro la massoneria più segreta, quella alla quale forse Rostagno si stava interessando da quando si era scoperta l’esistenza a Trapani di logge riservate, quelle della Iside 2. Tra i particolari che Rostagno avrebbe appreso quello che a casa di Mariano Agate, quando questi era libero, addirittura si era recato,ospite alla tavola del boss, il capo della P2 Licio Gelli.
L’autista del boss. Vincenzo Virga aveva un fedelissimo, un tecnico dell’Enel Vincenzo Mastrantonio. “Virga si fidava di lui non faceva niente se non si portava lui appresso e però Mastrantonio era un tragediatore”. La ricostruzione del delitto Rostagno vuole che quella sera qualcuno si adoperò a tagliare i fili della pubblica illuminazione, o almeno non a tagliarli materialmente, ma a provocare un corto circuito. Mastrantonio poteva essere stato capace a farlo. Milazzo questo non lo sa. Ha detto soltanto di sapere che del delitto Rostagno apprese dalla tv o dalla radio, ma che incontrando Mastrantonio questi lo affontò subito chiedendogli se sapeva “cosa era succeso ai picciotti”. Nelle fasi del delitto era scoppiato infatti il fucile. Milazzo ha detto che fu Mastrantonio a dirglielo, ma di avere troncato subito ogni discorso con Mastrantonio come faceva sempre, “perché non era prudente mettersi a parlare con lui, ogni cosa che sapeva la diceva”, e dentro la mafia sapere cose anche in modo indiretto, che non debbono sapersi, significa mettersi a rischio, e a sentire Milazzo era un rischio parlare per questo con Mastrantonio, che fu ucciso qualche mese dopo che fu ammazzato Rostagno: “Ma il delitto Mastrantonio non c’entra nulla col delitto Rostagno” ha assicurato il pentito Milazzo. E tornando al fucile scoppiato. A Milazzo è stato chiesto se era la prima volta che accadesse una cosa di questo genere. “No – ha risposto -. Non era la prima volta, sapevo che era già successo ma non mi ricordo a chi accadde e in quale delitto, ma so che un fucile esplose perché era stato sovraccaricato”. E Vito Mazzara era uno di quelli che sovraccaricava le cartucce che faceva anche da se, ha detto ancora Milazzo che ha deposto protetto da un paravento e circondato dai poliziotti di scorta, e che è entrato e uscito dall’aula coperto da un giubbotto per non farsi vedere.
L’editore di Rtc, “uno avvicinabile”. Domande sono state rivolte a Milazzo a proposito dell’imprenditore Puccio Bulgarella che era anche l’editore di Rtc, la tv dove Rostagno lavorava quando fu ucciso. Milazzo ha detto di sconoscere che Bulgarella fosse l’editore della tv, ma ha detto di sapere che Bulgarella erauno che la mafia poteva avvicinare, nel senso avere a disposizione, “poi ad un certo punto fu messo da parte, ma non ho mai saputo il perché. Uno che era avvicinabilissimo era invece suo padre, il padre di Bulgarella”. Se mancavano i riscontri, le parole di Milazzo rendono chiaro come Rostagno non lavorava lontano dalla mafia, non aveva la mafia cento passi come era stato per Peppino Impastato a Cinisi, ma aveva la mafia a pochissimi passi, nel breve spazio che lo divideva dalla stanza dove di solito a Rtc stava l’editore.
“Ci dobbiamo ascippare la testa”. C’è poco da chiedere o da capire. Quando uno si sente dire che ad un tizio bisogna “ascipparici la testa” significa che quello deve essere ucciso. E così Milazzo ha detto di avere sentito dire di Rostagno. “Quando Ciccio Messina mi disse di fare il sopralluogo ho capito che Rostagno era arrivato, era arrivato significa che doveva essere ucciso, era arrivato alla morte”.
Il processo almeno per questa udienza si è fermato qui, agli ordini di morte impartiti nel tempo da Cosa nostra trapanese che nel frattempo ha avuto la capacità di trasformarsi, di diventare impresa e di diventare sommersa. La prossima udienza il 7 dicembre per sentire un altro pentito, il mazarese Vincenzo Sinacori.