Otto mesi fa abbiamo salutato con gioia e solidarietà la rivolta del popolo libico, così come tutte le mobilitazioni che nel mondo arabo hanno dato vita alle "primavere": processi di cambiamento contraddittori e difficili, dagli esiti ancora incerti ma sicuramente importanti per il futuro del Mediterraneo e, probabilmente, di tutto il pianeta.
A differenza della Tunisia e dell'Egitto, dove la spinta popolare ha neutralizzato pacificamente la repressione ma non senza gravi lutti, in Libia l'insurrezione si è trasformata in una lunga e sanguinosa guerra civile sul cui fuoco hanno soffiato da più parti gli apparati della propaganda e della disinformazione. Oggi la nuova Libia del Consiglio nazionale transitorio scommette su un futuro di libertà e democrazia, ma temiamo che questi buoni propositi saranno inevitabilmente condizionati dalle pesanti ipoteche di marca occidentale.
Sette mesi fa abbiamo manifestato la nostra più ferma opposizione all'intervento militare in Libia voluto da Francia e Regno Unito e innescato dalla risoluzione Onu 1973. Un'operazione di guerra alla quale hanno partecipato altri paesi, occidentali e filo-occidentali, poi inquadrata nel collaudato dispositivo dell'Alleanza atlantica. Già a marzo denunciammo l’interesse delle potenze occidentali per il petrolio e il gas della Libia e l'intento di addomesticare a suon di bombe le istanze di emancipazione del popolo libico. Una facile previsione successivamente confermata, a settembre, dal bagno di folla a Bengasi e Tripoli di David Cameron e Nicolas Sarkozy.
Per tutti questi motivi, il nostro augurio per le sorti del popolo libico è che libertà e democrazia non diventino parole svuotate di ogni significato.
In questa storia, l'Italia ha svolto il solito ruolo di portaerei della Nato mettendo a disposizione sette basi militari, e garantendo la tutela dei suoi interessi in continuità con la vecchia amicizia con il precedente regime: a giugno il ministro degli Esteri Frattini ha rinnovato gli accordi anti-immigrazione con il governo provvisorio di Bengasi e, giusto pochi giorni fa, le squadre speciali della Marina militare hanno riattivato i giacimenti di petrolio e gas dell'Eni in Libia. Le dittature passano, il capitalismo resta.
L'aeroporto di Trapani-Birgi ha subìto una drastica riduzione del traffico civile per fare spazio alle operazioni militari. All'inizio, operatori turistici e politici locali tentarono, senza troppa convinzione, di opporsi alla chiusura dell'aeroporto attivando un curioso (e ipocrita) meccanismo di rimozione: "A Trapani non c'è la guerra", si diceva. "I turisti possono stare tranquilli".
E invece la guerra a Trapani c'è stata, con i cacciabombardieri che si levavano tutti i giorni in cielo per andare a bombardare la Libia, mentre la rassegnazione della città veniva comprata con le promesse di risarcimento economico da parte del governo.
Oggi come allora, torniamo a dire che l'unica soluzione per Birgi è la sua smilitarizzazione. Mandare via i militari restituirebbe dignità a questo territorio, rappresenterebbe un impegno concreto per la pace, e libererebbe le potenzialità economiche e produttive di questa provincia attualmente soffocate dall'ingombrante presenza delle forze armate italiane e internazionali. Ne sanno qualcosa gli abitanti delle campagne marsalesi, giustamente preoccupati per la prossima realizzazione del nuovo e potentissimo radar dell'Aeronautica militare di contrada Perino: una portata di 470 km di distanza e 30 km in altezza, una potenza media irradiante di 2,5 kW e una potenza dell’impulso irradiato di 84 kW. Niente male per un territorio già flagellato da malformazioni congenite e tumori sui quali lo Stato italiano non ha mai fatto chiarezza.
Ce ne sarebbe abbastanza per alzare la testa e rifiutare per sempre gli eserciti e le servitù militari, pensando alla Libia e a tutto quello che è successo e che potrebbe succedere anche in futuro.
Coordinamento per la Pace - Trapani