Questo progetto, ambizioso sia dal punto di vista tecnico che progettuale che economico, è stato proposto dal Governatore della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, il quale ha ricordato che per la valorizzazione di Selinunte sono già stati destinati 8milioni di fondi europei 2007-13, col sostegno istituzionale del Presidente della Provincia Regionale di Trapani Mimmo Turano e di quello scientifico del noto Valerio Massimo Manfredi. Il quale Manfredi, insieme al Prof. Mainetti e a Mario Luni, ha avviato un progetto, che comprende lo studio di fattibilità, gli interventi di ripulitura del sito archeologico e la realizzazione di un fedele modellino tridimensionale del tempio G di Selinunte, per il valore di 100 mila euro, finanziati da Sorgent Group. Il prototipo è realizzato secondo una ricostruzione “filologica”.
Al contrario, questo progetto che sembrerebbe comunque già ben avviato, sta suscitando le perplessità di molti illustri archeologi e studiosi che si sono riuniti in una tavola rotonda gli scorsi 20-21-22 ottobre “"Selinus 2011”.
Tra gli esperti è una levata di scudi: da Salvatore Settis, che definisce il progetto “un´opera di regime fuori fase storica”; ma anche Nicola Bonacasa, Antonino Di Vita, Nunzio Allegro e, non ultimo, Dieter Mertens direttore dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma che, da decenni ormai, conduce importantissime campagne di scavo a Selinunte.
Tralasciando la questione politica, comunque non secondaria, di questa proposta, sarebbe opportuno cercare di avviare una riflessione tecnica, scientifica e programmatica.
Partiamo dalla comprensione del monumento: il Tempio G, dedicato a Zeus come sappiamo dalla “Grande tavola Selinuntina” trovata al suo interno, era un periptero octastilo la cui costruzione iniziò intorno al 530 a.C. ed ancora nel 409 a. C., data della distruzione della città da parte dei Cartaginesi, non era del tutto ultimata. E' uno dei più grandi templi dell'antichità classica, oggi ridotto ad un immenso cumulo di architravi, colonne e capitelli, devastati dalla furia del sisma, da cui emerge un'unica possente colonna, restaurata dallo scultore Valerio Villareale nel 1832, tradizionalmente chiamata "fuso della vecchia". La prima riflessione è quindi quella che si lega all'incompiutezza del Tempio. E dalla quale, oggi, prendono lo spunto i dubbi sul merito del progetto di ricostruzione e come, d'altra parte, già avvenne in passato negli anni '70: l’ Università di Palermo in un documento firmato da Nino Buttitta e da 47 docenti, manifestò “disdegno” per l’ iniziativa e giudicò “nuovi vandali” i sostenitori della ricostruzione del tempio, ritenuta “una delle violenze che Selinunte subisce periodicamente”. Il riferimento era soprattutto al “restauro” del Tempio E, generalmente disapprovato “culturalmente e archeologicamente del tutto negativo”, secondo le parole di Ranuccio Bianchi Bandinelli, ritenendolo un’ esperienza utile solo a “favorire una cultura di moda del turismo rozzo, spettacolare, diseducativo”. Fu proprio questo il punto che fece sì che Vincenzo Tusa, che a Selinunte lavorò dal 1973 al 1985, e conosceva perfettamente luogo e problemi, prese le distanze. Bisogna partire dall’idea che il tempio greco costituisce un miracolo costruttivo per concezione, per la perfezione della resa dei suoi elementi costruttivi rigorosamente definiti che lo compongono e ne determinano l’ altissimo valore plastico: tutti i pezzi venivano rifiniti, levigati, scanalati in opera fino ad ottenere la perfetta e sottilissima coesione delle forme attraverso l’ opera accuratissima di maestri lapicidi (i litoxoi), con l’ esito di un autentico atto creativo tanto da farlo definire “kalòs erga”. Ed è chiaro che oggi non sarebbe così.
La seconda riflessione da avviare, anche se per linee generali, è quella che riguarda la normativa sul Restauro architettonico archeologico.
Il restauro dei monumenti è fatto di scienza, di arte e di tecnica. Ogni opera di restauro coinvolge una gravissima responsabilità che (sia che si accompagni o no a quella dello scavo) deve assicurare la stabilità di elementi fatiscenti e che deve tener conto che si stanno ponendo le mani su di un complesso di documenti di storia ed arte tradotti in pietra, non meno preziosi di quelli che si conservano nei musei e negli archivi. Per cui è opinabile un'estrema cautela nell'attuazione di “studi anatomici” che possono avere come insultato nuove impreviste determinazioni nella storia dell'arte e della costruzione. In un intervento di restauro, specie se si tratta di ricostruzione, non possono esserci ragioni di fretta, di utilità pratica, di personale suscettibilità che possano imporre in tale tema manifestazioni che non siano perfette, che non abbiano un controllo continuo e sicuro, che non corrispondano ad una ben affermata unità di criteri, e stabilendo come evidente che tali principi debbano applicarsi sia al restauro eseguito dai privati sia a quelli dei pubblici enti, a cominciare dalle stesse Sopraintendenze preposte alla conservazione e alla indagine dei monumenti. Nell'opera di restauro debbono unirsi ma non elidersi, neanche in parte, vari criteri di diverso ordine: cioè le ragioni storiche che non vogliono cancellata nessuna delle fasi attraverso cui si è composto il monumento, né falsata la sua conoscenza con aggiunte che inducano in errore gli studiosi, né disperso il materiale che le ricerche analitiche pongono in luce; il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d'arte e, quando sia possibile, ad una unità di linea (da non confondersi con l'unità di stile); il criterio che deriva dal sentimento stesso dei cittadini, dallo spirito della città, con i suoi ricordi e le sue nostalgie; e infine, quello stesso indispensabile che fa capo alle necessità amministrative attinenti ai mezzi occorrenti e alla pratica utilizzazione.
Ora, domandiamoci se il progetto della ricostruzione del Tempio G risponde a quanto detto sopra. La risposta è univocamente “No”. E quindi, qui si sforerebbe necessariamente nella riflessione politica. Ma non ci presteremo. Ricorderemo invece che le emergenze in Sicilia relative ai beni culturali sono ben altre: conservare e tutelare i monumenti, senza far distinzione tra maggiori e minori, senza scegliere monumenti manifesto. E ricorderemo pure che il Parco di Selinunte avrebbe bisogno di tutti quegli aggiustamenti (percorsi e pannellistica nuova e fruibile dai disabili, itinerari guidati, costruzione di un “antiquarium” per esempio) che ne innalzerebbero il target. E lo stesso dicasi per Segesta. E Marsala, Parco solo sulla carta. Perchè il denaro pubblico, indipendentemente dalla tipologia di fondi cui si attinge, merita una destinazione d'uso oculata e concreta.
Troppo da ricostruire ex novo a Selinunte - a cominciare dalla cultura del Presidente della Regione - troppo da reinterpretare filologicamente sull'incompiuto, troppo materiali da reintegrare. Il cui unico risultato, a parere della scrivente, è un falso storico, il quale per altro inficerebbe e dissolverebbe, senza remore né appelli, quel climax che avvolge e pervade il turista che arrivato a Selinunte, di fronte alla magnificenza di quei ruderi, in una sorte di “sindrome di Stendhal”. Quei ruderi che non narrano abbandono, incuria e deflagrazione, ma narrano piuttosto la storia di grandezza e distruzione di una Sicilia Antica, impetuosa quanto “splendidissima”, travolta dalla sua stessa magnificenza ed arroganza. Una Sicilia culturalmente alternativa alla Grecia, che mai pote essere definita “barbara” ma piuttosto “magna”. Una Sicilia che era, e che ora non c'è più. E della quale rimane il ricordo imperituro, nello svettare verso l'eterno Cielo del “Fuso della Vecchia”.
Valentina Colli