Importante è il suono delle parole. Una delle più belle dei dialetti siculo-occidentali è “albarìa”. Per me albarìa è sinonimo di felicità. Immaginate di svegliarvi all’aurora, in un giorno d’estate, di aprire la finestra ed essere abbagliati dalla visione di un mare liscio come uno specchio, inondato di luce sotto un cielo perfettamente sereno. Il silenzio è rotto solo da un grido di gabbiani. Il tempo è come sospeso. Sembra di stare a un passo dall’eterno. Questa è albarìa. E la piccola storia narrata da Struppa nel suo opuscolo comincia proprio in quell’aura d’incanto: «In una bella mattina di settembre, una brigatella di quattro amici partiva dal littorale di Marsala in un canotto microscopico, armato di due uomini e si dirigeva verso le Egadi… Il mare rideva del beato sorriso delle estive calme meridionali, sotto il padiglione di un cielo azzurro e tersissimo. In fondo le tre montagne: Marettimo, Favignana, Levanzo. A destra le isolette moziesi, piene di vigne, di canne, di sale e di anticaglie. A manca l’infinità dello spazio marittimo che si allunga sino alle sponde misteriose dell’Affrica».
Salvatore e i suoi amici salpano dunque in allegria. La loro meta è Favignana. Vogliono dimorare sull’isola alcuni giorni per esplorarne la natura e le bellezze, conoscerne le storie e i segreti. Con somma diligenza, lo studioso osserva dapprincipio le rocce e le grotte, la flora e la fauna. Rievoca la storia di Favignana, dalle guerre puniche fino ai giorni del “nuovo padrone Signor Ignazio Florio”, il “negoziante palermitano” che da poco ha acquistato l’isola da un discendente della famiglia Pallavicini di Genova. Ma presto il racconto abbandona le memorie e le pietre per immergersi con gusto nella più viva umanità. Appaiono le case, i giardini, i colori, i personaggi. E le donne, che: «Si fanno appena vedere nei giorni di festa. Donne che hanno fattezze geniali, lindura, portamento svelto e simpatico e ti parlano come se ti avessero conosciuto da tempo; occhi grandi e appassionati, forme slanciate, vivacità gradevolissima e uno spirito molto sentimentale». Fanciulle che: «fanno appello al sangue arabo e spagnuolo che scorre nelle loro vene e si vendicano subito», se tradite nell’amore.
Come resistere allora alla tentazione dei caratteri, degli aneddoti, delle sapide cronache popolari? Eccone un esempio, che li vale tutti quanti. Accade una sera d’estate, in un palazzo signorile del borgo. Si dà una gran festa in onore d’una coppia di sposi siciliani, in breve soggiorno a Favignana per la luna di miele. Poco prima della cena il padrone di casa presenta ai convitati un nuovo ospite, un giovane lord inglese, suo amico, appena approdato sull’isola a bordo di uno yacht. Musiche, canti, libagioni, e poi le danze in terrazza, sotto il chiaro di luna. “Eran rapiti i sensi…”. Si fanno le ore piccole. Si beve. E nello stordimento della magica atmosfera nessuno per qualche tempo si avvede d’un fatto un po’ strano: la sposina non danza più col suo sposo. Anzi, è sparita. Finalmente qualcuno s’accorge della sua assenza, e col dovuto garbo ne avverte il marito. Quello di colpo si sveglia dall’ebbrezza del buon marsala, e comincia a cercare. Nulla. È lo sgomento generale. La festa si spegne, la musica tace. Si scende anche in strada, si esplorano i vicoli, si chiama la sposa con grida accorate. Ma i quarti d’ora passano; già spunta l’alba, e non si scova un segno della bella signora.
Un sospetto assale allora il padrone di casa. All’improvviso, si rende conto di non aver mai visto il suo amico inglese nel parapiglia di quelle ultime ore. Corre, va al porto. Cerca lo yacht del giovane lord. Anche quello è sparito. Un pescatore ha visto tutto e racconta: nel cuor della notte, in fretta e furia, il forestiero è salito a bordo della sua barca in compagnia di una giovane donna vestita “come una principessa”. Svelto, ha mollato gli ormeggi, ed è salpato verso settentrione, forse in rotta per la Sardegna. Ora tutto è chiaro. La sposina è fuggita, travolta da un raptus di passione per lo straniero. Complici il vino, la musica, e il chiaro di luna.
E dalla passione al sangue il passo è breve. Altro che paradiso. Il quadro di Favignana si tinge di colori foschi e ardenti. Entrano in scena i volti e le storie dei dannati, degli sciagurati che la sorte ha scaraventato sull’isola, in carcere o al confino, dalle lontane sponde del Regno: «Il paese è pieno di condannati a domicilio coatto; il governo italiano ne ha deportato una colonia di circa cinquecento, che a vederli per le strade, lordi, sudici, pezzenti, gialli, scalzi ti rammentano gli scamiciati e i sanculotti dell’ottantanove, divinamente delineati dal Thiers nelle polibiche pagine della sua storia. Ne vedi di ogni ceffo, di ogni atteggiamento, di ogni tipo, con camicie color cenere, logore e sdrucite da far venire la pietà anche al freddo dell’inverno; con brache e giacchette che mal si saprebbe indovinare come stessero appiccicate alle membra, perché piene di strappi, di sbrendoli, di ritagli; colla perpetua cicca all’angolo della bocca, fetenti di eruttazioni acide, di esalazioni pecorine, affamati e pronti a stender le mani sul pane del fornajo, costanti abitatori delle bettole dove a pugni, a coltellate, a rasojate si sfregiano e si uccidono a vicenda, o accoccolati agli angoli del trivio, torvi nel cipiglio, o rimessi che ti pajon melensi, o feroci nelle linee faciali, o cretini od ebeti, pronti a farti una tiritosta anche in cima alla montagna e più pronti a sbudellarti cordialmente, ecco cos’è il coatto che la società rigetta, che la giustizia non ha saputo definire, che l’umanità vorrebbe scuotere dalle sue membra, ma che pertanto la società, la giustizia, l’umanità ne apparecchiano la materia prima».
L’orrore è un gorgo che attira irresistibilmente il giovane studioso del folclore e dell’antropologia. A Favignana c’è un carcere famigerato: è il castello di San Giacomo. Eretto tra il secolo XV e il XVI, come il castello di Santa Caterina che svetta in cima al monte, è una fortezza impenetrabile, oscura, dalle alte e massicce mura: «piena di spigoli, di raggi, di bordi, di linee, di spezzature… divisa all’interno in vari scompartimenti e imbottito di varie opere in muratura cariche di celle fratesche, di scalette pensili, di ferramenta, di portoni, di cucine, di pozzi, di anditi e di cameroni». In quel labirinto da incubo strisciano le ombre dei morti viventi, degli ergastolani che si macchiarono dei crimini più efferati. Guidato dal direttore del bagno penale, Salvatore sprofonda in quelle tenebre umane, e con la pelle d’oca, nello sgomento, fissa lo sguardo attonito sui volti dei dannati e ascolta le loro storie: «Qui la temperatura della mia mente si abbassò d’un tratto; fui invaso da una specie di ghiaccio morale che mi raggrinzò fin la sclerotica degli occhi... Cinquecento condannati vuol dire il delitto che si replica cinquecento volte… Il delitto è un’idra possente dalle mille teste che la giustizia umana va sempre tagliando, mentre dal mozzo tronco se ne allunga un’altra». E s’alza il sipario sullo spettacolo infernale.
«Mi fu accennato un detenuto a vita, piccolo di statura, di colore olivastro, pareva educato, sapeva leggere e scrivere: aveva ucciso un uomo mentre dormiva… Un altro che al tempo di quando era nel mondo, avea fatto il barbiere… egli avea troncato una testa col suo rasojo e pazientemente le avea fatto la barba… Un altro, alto della persona, secco ed ossuto… avea appiccato fuoco a delle case di campagna, piene di uomini, di donne, di animali e di masserizie, ci salutò e ci sorrise con grande amabilità… Un altro, murato dentro una cella sbarrata, feroce nella torva fisonomia, colla fronte depressa e il naso camuso, colle ciglia che parean due cespugli, e la pupilla di gatto, in quello stesso luogo avea trucidato un suo compagno, sgretolandogli con un mattone la pelle e l’osso frontale, per dare a vedere che si fosse ucciso dando di cozzo nel muro… Un altro che era stato al seguito di un famoso brigante… appena ci vide, fur quete le sue scarne gote, un risolino sardonico brillò sulle sue labbra di cavallo… domandai al direttore qual delitto avesse commesso quell’uomo, mi rispose che avea fatto merenda colla frittura di un cervello umano… E ne vidi un altro ancora, la cui sembianza non puossi descrivere a parole… era una specie di volto di mulo cogli occhi stupidi e sulle tempie capelli radi sopra una testa cucurbitacea, era un vecchio, camminava lentamente colle mani strette dietro la schiena… sciagurato! Avea stuprata, uccisa ed arsa la propria figlia».
Eppure non c’è tregua, non c’è limite allo svelarsi del disumano. Ora è il turno dei malati: «Horresco referens… quando entrammo nell’ospedale dei detenuti, io compresi interamente la significazione della parola raccapriccio. Il morbo era venuto a contraffare di più quelle fisonomie atroci… Mi ricordo di aver visto là dentro un vecchietto ebete che ci salutò alla militare; mandava un puzzo di escrementi che ammorbava l’aria; non so qual delitto avesse commesso in sua gioventù; a novantasette anni sarebbe libero, ne aveva ottantaquattro… mi fece una compassione profonda». La nausea cede il posto alla pietà. Segno che ormai l’orrore è insostenibile. Così, l’ultima immagine che a Salvatore appare in quel suo viaggio agl’inferi è quasi una visione metafisica, il quadro di un dolore infinito che si cristallizza nelle forme dell’allegoria e dell’enigma: «Uscendo di là c’incontrammo in un condannato giovine, robusto, tarchiato che passeggiava all’ombra lungo il muro del suo camerone, e lavorava di calza, serio e muto come l’abitante di un manicomio. Non posso dire il contrasto che risultava da quelle dita callose e grosse poste allato alla morbida bianchezza di quelle maglie».
Tutto era cominciato nell’albarìa di un giorno d’estate. Una piccola barca che scivolava sullo specchio diafano del mare, dove: «la bonaccia avrebbe permesso di contarne anche i fili immobili dell’alga». Lo sguardo di Salvatore e dei suoi compagni s’era illuso, in quella luce di miracolo, di poter scorgere perfino le immagini del mistero: «Ma per quanto aguzzammo la virtù degli occhi nell’immensità aerea, non ci venne fatto di scorgere i noti fenomeni della fata morgana, che soglion ripetersi in questa parte occidentale della Sicilia». L’aurora li guidava, invece, verso l’isola della verità.
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