Alcuni resti fossili, rinvenuti in Africa, potrebbero cambiare le attuali conoscenze sull’evoluzione umana. Ne ha dato notizia la prestigiosa rivista scientifica Science.
I ritrovati appartengono a un ominide vissuto poco meno di 2 milioni di anni fa nell’attuale Sudafrica e chiamato Australopitecus sediba, dal nome della località in cui sono stati trovati i resti, 50 chilometri a nordovest di Johannesburg.
In totale sono 220 i frammenti ritrovati, appartenenti a 5 individui, alcuni dei quali si sono mantenuti incredibilmente integri nel corso dei milioni di anni, e presentano ancora resti organici, che hanno permesso agli scienziati di effettuare numerosi test molto affidabili.
Innanzitutto la datazione, 1 milione e 997mila anni fa, con un margine di errore di soli 3mila anni. Analizzando la conformazione cranica e del cervello si sono notate molte differenze rispetto agli attuali modelli che si consideravano appropriati per delineare il passaggio dalla scimmia all’uomo.
La mano dell’Australopitecus sediba era in grado di afferrare e manipolare gli oggetti, le sue gambe un incrocio tra quelle umane e quelle dell’animale.
Un essere più evoluto di una scimmia, con una struttura celebrale più complessa e avanzata, che secondo alcuni esperti potrebbe rappresentare l’anello di congiunzione, finora mancante, tra la scimmia all’uomo.
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