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30/09/2011 16:59:03

Ospitalità eucaristica

Non a caso l'iniziativa del Gruppo ecumenico torinese «Strumenti di pace» di promuovere, come cristiani di diverse confessioni, una azione comune per giungere a condividere l'eucaristia (come di solito la chiamano i cattolici) o Santa Cena o cena del Signore (come di solito la chiamano gli evangelici) in culti pubblici, celebrati in parrocchie cattoliche e comunità evangeliche della città – non a caso, dicevo, questa iniziativa è nata quest'anno 2011. Perché non a caso? Perché il testo biblico proposto quest'anno alle comunità cristiane di tutto il mondo in occasione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani svoltasi, come ogni anno, dal 18 al 25 gennaio scorso, era Atti 2, 42, dove si dice che i primi cristiani «erano perseveranti nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere». Spezzare il pane insieme era dunque uno dei distintivi della primissima comunità cristiana – quella nata a Gerusalemme il giorno di Pentecoste. Come sappiamo questa espressione indica due cose distinte, ma all'origine strettamente collegate tra loro. La prima è il pasto comune dei cristiani, consumato insieme e chiamato agape; la seconda è la cena del Signore, che abitualmente avviene nel quadro dell'agape, come sua conclusione e coronamento. Condividendo il pane e il vino della cena del Signore, i primi cristiani manifestavano la loro comune appartenenza a Cristo e la loro reciproca fraternità.
Riconoscersi come cristiani implicava, tra le altre cose, lo spezzare insieme il pane della Cena. Ora nel gennaio di quest'anno abbiamo toccato con mano la grande contraddizione nella quale ci troviamo: pur appartenendo a chiese diverse, ci riconosciamo tutti come cristiani, ma, ciò nonostante, non spezziamo insieme il pane della Cena. Questo vero e proprio «apartheid eucaristico» era comprensibile quando non ci riconoscevamo come cristiani, ma ciascuno considerava l'altro come eretico. Oggi non è più così. La stessa Chiesa cattolica, che come sappiamo a suo tempo scomunicò la Riforma, i riformatori e i loro seguaci, con il Concilio Vaticano II ha abbandonato questo giudizio dichiarando che protestanti e ortodossi «giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti quali fratelli nel Signore» (1). Ora delle due, una: o questo non è vero, cioè non è vero che siamo «fratelli», sia pure «separati», ma comunque «insigniti del nome di cristiani»; se questo, dicevo, non è vero e quindi non ci riconosciamo reciprocamente come cristiani, allora è logico che non spezziamo il pane della Cena insieme. Se invece è vero che siamo «fratelli», sia pure «separati», quindi ci riconosciamo reciprocamente come cristiani, pur nelle diverse appartenenze confessionali, allora non solo possiamo, ma dobbiamo spezzare il pane in insieme, perché questo facevano i cristiani quando si incontravano per ascoltare insieme la Parola di Dio, per praticare la comunione fraterna e per pregare. Chi fa queste cose insieme, può e deve anche spezzare insieme il pane della Cena.
È questa la proposta del Gruppo ecumenico torinese «Strumenti di pace». La nostra lettrice ce ne comunica anche la motivazione: «Vorremmo con questo gesto rispondere al comandamento del signore, al suo invito, al suo accogliere tutti. Si vorrebbe, insomma, essere donne e uomini del dono e della condivisione». Questa motivazione è più che sufficiente: Gesù ha celebrato la Cena anche con Giuda, non ha escluso neppure lui. Chi ha il coraggio e l'autorità di escludere chicchessia? Il pane e il vino della Cena sono il dono che Gesù ci fa dando se stesso: chi ha il coraggio e l'autorità di togliere questo dono del signore dalla mano di un suo fratello riconosciuto come cristiano? Quindi la proposta è buona, evangelica, cristiana; è un atto di ubbidienza all'invito di Gesù e di coerenza ecumenica, con il quale, certo – non sarebbe onesto tacerlo – si trasgredisce una legge ecclesiastica, ma questo è inevitabile se si vuole vivere davvero, in questo campo, la libertà cristiana. La legge non riesce mai a contenere la grazia, che trabocca da ogni lato; perciò Gesù ha tante volte trasgredito la legge del sabato.
Va da sé però che, come giustamente osserva la nostra lettrice, «rimarranno irrisolte le questioni relative ai diversi significati che cattolici ed evangelici danno alla cena del Signore». Ad esempio, gli evangelici non condividono la dottrina della transustanziazione, e i cattolici (se seguono la dottrina ufficiale della loro Chiesa) pensano che solo un sacerdote ordinato da un vescovo (cattolico o ortodosso) abbia la cosiddetta potestas consecrandi, cioè il potere di «consacrare» il pane e il vino così da trasformarli in corpo e sangue di Cristo. Ma se le differenze di dottrina tra cattolici ed evangelici sulla Cena restano quelle di prima, che senso ha che essi la celebrino insieme dato che la intendono in modo diverso? Celebrano davvero la stessa Cena o non celebrano forse due Cene diverse, pur accostandosi insieme alla stessa mensa e condividendo lo stesso pane e lo stesso vino? Ma se dovesse essere così (due Cene diverse celebrate insieme da cattolici ed evangelici intorno alla stessa mensa), la comunione realizzata intorno a quella mensa sarebbe reale o solo apparente? Sono questi gli interrogativi – molto seri – che la nostra lettrice solleva e ai quali rispondo così: ciò che conta nella cena del Signore sono le sue parole («Prendete, questo è il mio corpo»; «Questo è il mio sangue, il sangue del patto...» e i suoi doni – il pane e il vino: Marco 14, 22-25). Né Gesù stesso, che per primo ha celebrato la Cena, né l'apostolo Paolo, che ne racconta l'«istituzione» (I Corinzi 11, 23-25), hanno sentito il bisogno di spiegare, cioè di interpretare, le parole della Cena. Questo significa come minimo due cose: la prima è che l'interpretazione è libera, cioè sono possibili diverse interpretazioni, nessuna delle quali però può pretendere di essere canonica, perché nella Scrittura, che è il canone (cioè la regola della nostra fede cristiana), le parole di Gesù sono riportate, ma non interpretate; la seconda è che sebbene l'interpretazione sia necessaria (nel senso che ciascuno deve sapere che cosa sta facendo quando partecipa alla Cena), tuttavia essa non è costitutiva della Cena stessa, la quale è la cena del Signore, indipendentemente dalle interpretazioni che noi ne diamo. Ciò che unisce coloro che partecipano alla cena del Signore sono il pane, il vino, le parole di Gesù e l'azione invisibile dello Spirito, e non le nostre spiegazioni delle parole di Gesù e le nostre interpretazioni dei suoi doni.
Anche se quando celebriamo la Cena tra cristiani di diverse confessioni fossimo tutti d'accordo e dessimo la stessa spiegazione di ciò che nella Cena accade (questa unanimità, tra l'altro, non c'è neppure quando la celebrano cristiani della stessa Chiesa; anche lì, segretamente, le opinioni divergono!), non sarebbe quell'accordo il vincolo reale della nostra comunione, bensì lo sarebbero le parole, il pane, il vino di Gesù, e la testimonianza interiore dello Spirito Santo. Ecco perché ha senso che cristiani di chiese diverse celebrino insieme la cena del Signore: perché è lì che Gesù li convoca, e lì essi si radunano, accettando, con gioia e gratitudine («eucaristia» significa in greco «riconoscenza», «ringraziamento»), il suo invito, per ricevere insieme le sue parole e i suoi doni, indipendentemente dalle diverse interpretazioni che essi possono dare della Cena. Quello che ci unisce a Gesù quando celebriamo la Cena, non è questa o quella dottrina, ma la fede. Nel linguaggio ecumenico, questo tipo di celebrazione si chiama «ospitalità eucaristica»: siamo tutti ospiti (indegni) del Signore alla sua mensa, e lì, ricevendo il pane e il vino con la sua parola, celebriamo insieme la «comunione con il corpo e il sangue di Cristo», come dice la Scrittura (I Corinzi 10, 16). Come avvenga questa comunione la Scrittura non lo dice, e non abbiamo bisogno di dirlo noi. La Scrittura dice solo che avviene, s'intende nella fede, e questo ci deve bastare. Le dottrine diverse restano, e possono continuare a confrontarsi, ma l'invito di Gesù deve avere il primato. Né si può pensare a cerimonie sostitutive, alle quali Gesù non ci invita: egli ci invita alla sua mensa, che è unica, e non ad altre. L'iniziativa di «Strumenti di pace», come ho già detto, è buona proprio perché afferma il primato del dono di Dio sulle nostre interpretazioni, e questo dono è unico e lo stesso per tutti. Gesù non divide e neppure accetta le nostre divisioni, almeno alla sua mensa. L'unica condizione è la fede in lui e la chiarezza nei rapporti tra noi. Le nostre differenze nell'interpretazione della Cena non devono essere taciute o scavalcate – qui ci vuole totale trasparenza –, ma non devono neppure essere dogmatizzate al punto da diventare più importanti dell'invito di Gesù. Il Signore è lui, non noi.
 


Paolo Ricca in "Riforma" del 16 settembre 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com
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(1) Concilio Vaticano II, Decreto sull'ecumenismo, n. 3