Per me significa, in primo luogo , essere erede di una storia che affonda le proprie radici in un movimento pauperistico, per alcuni versi analogo al francescanesimo, che lega inestricabilmente la testimonianza della fede alla giustizia sociale e al diritto degli esclusi. In seconda istanza, significa collocarmi nell’alveo della Riforma, secondo cui ogni acquisizione di fede può essere soggetta a revisione critica a partire dal libero esame delle Scritture. In terzo luogo significa mantenere l’evangelo come orizzonte, ricordando che nessuna realtà ecclesiastica può avanzare in tal senso la pretesa di un’identificazione con quel messaggio che la chiama, ogni giorno di nuovo, a ridefinirsi e a trasformarsi. Più in concreto, nella vita di ogni giorno, essere pastore della Chiesa Valdese significa fare esperienza di democrazia nella vita comunitaria ed istituzionale, in fedeltà a quel «sacerdozio universale» sancito da Lutero che, nella tradizione protestante, rappresenta la vocazione e la responsabilità di ogni cristiano. Infine, significa credere nell’ecumenismo che insegna la convivenza ed il confronto come modalità autentica dell’essere cristiani al di là delle rispettive appartenenze confessionali, secondo sensibilità teologiche, liturgiche ed ecclesiologiche diverse ma non per questo incompatibili.
2 - Come mai hai deciso di rivestire questo ruolo di pastore?
Beh, la storia, ovviamente è lunga: provo a riassumerla in questo modo. La mia vocazione al pastorato ha una duplice matrice: per un verso nacque da un percorso di ricerca, per così dire, «culturale»; al contempo, però, ebbe una motivazione profondamente esperienziale. L’anno che precedette l’inizio dei miei studi teologici, ero iscritto al corso di laurea in filosofia presso l’Università degli Studi di Torino; lì il professor Marco Ravera, docente (eccezionale) di filosofia della religione, impartì un corso sul libro di Giobbe. Fuori dell’università, parallelamente, dedicavo due pomeriggi alla settimana all’assistenza psicologica a malati terminali di tumore attraverso l’associazione ANAPACA. Le due esperienze, l’una di riflessione, l’altra di incontro diretto con il dolore dell’altro, mi hanno segnato profondamente, sino a farmi orientare nella direzione di una ricerca del senso che passasse attraverso l’interrogazione e il rischio della fede ebraico-cristiana.
3 - E che ci fa un pastore valdese a Marsala?
Anzitutto beneficia dell’affetto e dell’impegno delle persone della sua comunità; poi cerca di vivere insieme con loro una fede capace di rimettersi in discussione e disposta a spendersi in seno ad una società di cui la chiesa si riveli capace di cogliere gli interrogativi e gli stimoli. Qui a Marsala, comunque, ci sono arrivato per caso: è la Tavola Valdese, esecutivo eletto annualmente dal nostro Sinodo, a stabilire le sedi presso cui noi pastore e pastori siamo chiamati a svolgere il nostro servizio per un periodo di sette anni. Devo dire che sono stato molto fortunato: amo molto questa terra, con tutte le sue contraddizioni, così come amo la sua gente, spontanea, accogliente, generosa: anch’essa, come la sua terra, solare e «vulcanica».
4 - Come giudichi la religiosità della nostra gente?
Non credo che sia possibile generalizzare a questo riguardo, se non al rischio di inopportune approssimazioni. Buona parte della cittadinanza, ad ogni modo, mi pare fortemente legata alle tradizioni proprie del cattolicesimo popolare, circa le quali, talvolta, mi aspetterei un maggiore spirito critico: ogni tradizione, difatti, va rispettata, ma mai ossequiata. Sono difatti dell’avviso che l’educazione alla fede debba anzitutto essere educazione al pensiero e al suo esercizio critico e creativo, al di fuori e al di là di ogni principio d’autorità che intenda limitarne l’azione e l’applicazione. La fede come il pensiero che deve accompagnarla e nutrirla, difatti, o sono liberi o non sono: e una certa religiosità, talvolta, si dimostra refrattaria di fronte a queste rivendicazioni di autonomia che considero estremamente positive per il fatto che portano la fede ad interrogarsi e, di conseguenza, a maturare.
Non vorrei con ciò sminuire il valore di altri aspetti della vita di fede, come, ad esempio, quello emotivo, che ha una rilevanza innegabile ed un valore insopprimibile: ritengo però opportuno rimarcare che anche l’emotività va educata e che è sempre auspicabile che non venga dissociata e men che meno contrapposta alla riflessione.
5 - Come sono i rapporti con la 'dirigenza' della Chiesa Cattolica?
Partendo dal presupposto che il governo della chiesa è per noi valdesi irrinunciabilmente democratico e va esercitato ricoprendo ruoli di servizio e di responsabilità (non di comando) in maniera rotativa, va da sé che lo stesso concetto di «dirigenza» può essere interpretato in maniere sensibilmente diverse. Ciò detto, è impossibile non avere stima per un uomo della statura morale e dello spessore umano di Monsignor Mogavero che, non di rado, ha preso posizioni coerenti e del tutto condivisibili su questioni delicate e rilevanti come l’incompatibilità del messaggio evangelico con la logica mafiosa o la corruzione dell’attuale classe politica. Diversa è l’opinione mia e di una parte consistente della Chiesa Valdese per ciò che riguarda la visione della teologia e della chiesa proprie dell’attuale pontefice: la sua linea intransigente, i provvedimenti presi dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (di cui Ratzinger fu Prefetto sotto Wojtyla) nei riguardi di alcuni teologi «non allineati», il mancato riconoscimento delle realtà protestanti come chiese a tutti gli effetti, rappresentano seri ostacoli al cammino e al dialogo ecumenici.
6 - Cosa vorresti dire ai nostri giovani che vivono lontano da ogni esperienza di fede?
Che credo di comprendere e, in buona misura, di condividere il loro disagio di fronte ad una fede che troppo spesso avvertono lontana dalle loro vite e dalle loro inquietudini. Il messaggio evangelico, invece, ha bisogno della loro creatività, della loro capacità di creare linguaggi nuovi e di rivolgere domande inedite. Se è vero che buona parte dei nostri giovani disertano ormai le realtà ecclesiastiche, sarebbe più opportuno interrogarci sul perché lo facciano anziché ricorrere ad uno sterile biasimo: dovremmo chiedere loro, con serietà ed interesse, che cosa credono che debba cambiare nellechiese perché possano tornare a sentirle come uno spazio in cui vivere e sperimentarsi, fuori da schemi precostituiti ed inutili costrizioni.
7 - Che rapporto hai con le persone della tua comunità?
Per quel che mi riguarda, d’affetto e di stima sinceri e profondi: ciò che più caratterizza la nostra relazione è il confronto schietto e costante, all’interno del quale ogni interrogativo, ogni perplessità sono legittimi ed ogni fragilità accolta. Insieme, cerchiamo di percorrere un sentiero che caratterizzi la fede come ricerca inesauribile anziché come presunzione di certezza. Oltre a ciò, i nostri rapporti sono distesi ed informali, al punto che il sorriso e l’ironia affiorano spesso e contribuiscono a rendere il clima che si respira in comunità sereno e, non di rado, allegro. Inutile dire che non mancano i momenti di incomprensione: devo dire, però, che ho sempre visto affrontarli con schiettezza e maturità, senza infingimenti e con mutua comprensività. Seppure nel quadro di quella complessità ineludibile che caratterizza le relazioni umane, il rapporto che mi lega alle donne e agli uomini della mia comunità è caratterizzato da una fiducia piena e (almeno credo, da quel che ho potuto percepire in questi quattro anni di cammino fatto insieme) reciproca.
a cura di Franco D'Amico - 25 sett 2011 -
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