La struttura, costata 6 milioni di euro, è stata realizzata alcuni anni fa all'ingresso della città capoluogo, in un terreno contiguo all'area dell'ex aeroporto di Milo, vicino al Comando provinciale dei vigili del fuoco e alla stazione dell'Agenzia spaziale italiana. La sua capienza è di oltre duecento posti. All'interno dovrebbe trovare spazio anche una sezione femminile e forse pure un centro di accoglienza per richiedenti asilo. A gestirla saranno il centro di accoglienza Badia Grande della Caritas di Trapani e la cooperativa sociale onlus «Insieme» di Castelvetrano.
Una volta reso operativo il nuovo Cie dovrebbero chiudere il «Serraino Vulpitta» che ha una capienza di 43 posti e la tendopoli di Kinisia dove fino a pochi giorni fa si trovavano una settantina di migranti.
Al “Serraino Vulpitta” nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999 dopo un tentativo di fuga duramente sedato dalle forze dell’ordine, dodici immigrati vennero rinchiusi in una cella, bloccata dall’esterno con una sbarra di ferro. Uno di loro diede fuoco ai materassi nel tentativo di farsi aprire la porta. Fu l’inferno. Nel rogo morirono subito, bruciati vivi, tre immigrati tunisini; altri tre moriranno nei mesi successivi in ospedale a causa delle gravissime ustioni riportate. Il processo iniziato nel 2001, a carico dell’ex Prefetto di Trapani Leonardo Cerenzia, imputato di omicidio colposo plurimo, si è poi concluso con l’assoluzione, confermata nel 2005 da una sentenza della Corte di Appello di Palermo.
Il comitato che si è costituito per ricordare le vittime di quella strage, il Comitato “29 Dicembre 1999”, ha più volte definito la nuova struttura di Contrada Milo a Trapani “una struttura inutile e violenta caratterizzata da una serie di “blocchi” di cemento, che ha già divorato ingenti risorse economiche per la sua realizzazione, e che ancora ne divorerà per la sua gestione. Così come è successo per il ”Serraino Vulpitta”: i costi della sua gestione e delle sue innumerevoli e continue ristrutturazioni, a fronte delle carenze igieniche, di inadeguatezza strutturale, di scarsa vivibilità per chi vi è trattenuto e per chi vi lavora, denunciati più volte, anche da Medici senza Frontiere, sono stati in questi anni altissimi, al di fuori di ogni controllo”.
Intanto a Kinisia la situazione non è delle migliori, e la tendopoli allestita nella pista del vecchio aeroporto non lascerà un buon ricordo. In questi giorni infatti sono arrivate testimonianze di violenze sugli immigrati, di condizioni igieniche scarsissime e di diritti violati.
A raccontarcelo è Natya Migliori, giornalista che è riuscita ad entrare nella tendopoli di Kinisia. E il colpo d’occhio, ci dice, non è dei migliori. “Là dentro è un inferno, non c’è un filo d’ombra per ripararsi dal sole cocente, le tende sono dei forni, l’acqua che bevono le 71 persone chiuse là dentro è tenuta al sole e sembra brodo”. Ci sono due giri di recinzione metallica, e i container sembrano formare una parete, nulla deve essere visto dall’esterno. Il campo è disposto lungo la vecchia pista, inizialmente c’erano delle camionette dei carabinieri a fare da ronda, ma adesso che non ci sono più le zone franche vengono usate sempre di più per scappare.
Natya qualche giorno fa riceve una telefonata, dall’altro capo del telefono le dicono che stanno picchiando dei ragazzi. Sono tre ragazzi, gli unici, dei 59 che qualche giorno fa sono riusciti a fuggire dal Cie, ad essere stati riacchiappati. Riesce ad entrare a Kinisia, e le raccontano che la punizione per i tre è stata “esemplare”. A farlo sono le stesse vittime del pestaggio. “Li hanno picchiati nudi – racconta la giornalista – mi hanno mostrato i lividi ed erano evidentemente causati dai manganelli. Un altro era conciato davvero male. Si avvicina da lontano zoppicando e accompagnato da una guardia che non l’ha fatto parlare, riesco però a chiedergli se avesse avuto anche lui problemi con la polizia: mi ha fatto sì con la testa. L’agente che accompagna il ragazzo sostiene che si fanno male da soli mentre scappano e che loro, le guardie, gli parlano ma scappano lo stesso”. In media gli agenti che stanno al Cie di Kinisia sono sempre una ventina. “La situazione è drammatica a Kinisia, i poliziotti spesso vanno nel panico, non credo che sia razzismo, ma in nessun modo si possono giustificare queste violenze”. Di giorno al Cie di Kinisia è un via vai di mediatori, e operatori di varie organizzazioni. Per questo gli episodi di violenza avvengono di notte, mentre tutto dorme.
E al nuovo Cie di contrada Milo sarà lo stesso? “No, nel nuovo Cie sarà più semplice controllare e ci sarà forse un po’ di respiro per gli alloggiati, visto che la struttura è in cemento, e servizi igienici migliori. A Kinisia si crea la tensione perché è facile scappare, infatti la maggior parte sono fuggiti”. E di un gruppo di una cinquantina di immigrati di Kinisia non se ne hanno più tracce, scomparsi, “probabilmente – ci spiega Natya – sono stati rimpatriati a spese dello Stato, cosa che non si può fare”.
Intanto spunta anche il mistero delle richieste di asilo politico. “Un avvocato che assiste i ragazzi del Cie di Kinisia mi ha riferito che quasi tutti sono trattenuti al Cie illegalmente. Un provvedimento di fermo al CIE è a tutti gli effetti una privazione della libertà personale. Per questo la polizia ha quarantott'ore di tempo per richiedere alla Cancelleria di un Giudice di Pace la convalida di trattenimento. Il Giudice, a quel punto, ha altre quarantott'ore di tempo per sottoscriverla. Se la procedura non viene effettuata entro le complessive novantasei ore, il periodo di permanenza è illegale”. Molti dei ragazzi sono arrivati a Lampedusa a maggio e fino a metà giugno sono rimasti là in condizioni assolutamente precarie e senza che le loro richieste di asilo politico (o protezione internazionale) siano mai state inoltrate alla Cancelleria di competenza. Poi sono arrivati al Cie di Kinisia, e la richiesta di Protezione Internazionale è stata verbalizzata contestualmente al decreto di Respingimento, risultando in tal modo non valida. E per tutto ciò i richiedenti asilo di Kinisia continuano a rimanere al Cie anziché andare al Centro per i richiedenti asilo. La cosa misteriosa adesso è che la documentazione e le richieste sono state “smarrite”, e per gli immigrati non resta che sperare in una favorevole decisione del giudice di pace oppure scappare come tanti altri.
Ed ecco il reportage di Gabriele Del Grande - Fortress Europe
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Il centro di identificazione e espulsione di Chinisia |
Gialli, rossi, blu. Della Tarros, della Ttl. Chissà da quali navi mercantili sono stati sbarcati, e chissà quali rotte marine hanno percorso tutti quei container prima di incagliarsi nelle campagne di Trapani, montati uno sull'altro in quella che vista da lontano sembra un'installazione della Lego, ma che da vicino altro non è che l'improvvisato muro di cinta dell'ennesima gabbia, forse la peggiore nel panorama di inizio secolo di questa Italia inospitale e feroce con i più mal voluti dei viaggiatori: i
harraga. Ci troviamo di fronte al nuovo centro di identificazione e espulsione di Chinisia. Nessun giornalista ha il diritto di entrare. La
circolare 1305 del primo aprile lo vieta. Ma abbiamo deciso di provare lo stesso. Parcheggiamo la macchina nel piazzale e approfittando del via vai del cambio turno degli operatori ci avviciniamo con estrema disinvoltura verso la gabbia, come se fosse la cosa più normale da fare. Nessun agente ci chiede di identificarci e in pochi passi siamo sotto la gabbia di ferro.
Tre metri di base per cinque di altezza, saldata tra due colonne di container. È l'ingresso del campo. Attraverso le maglie di ferro spuntano le dita di chi si tiene aggrappato al cancello tutto il giorno, per far respirare lo sguardo. Perché da dentro si vedono soltanto il muro di cinta dei container e il cielo bianco di questa torrida estate, attraversato soltanto dai cacciabombardieri diretti in Libia e dai voli della Ryanair per il vicinissimo aeroporto di Trapani Birgi. Guardando tra le sbarre si intravede la tendopoli allestita sull'asfalto della malandata pista del vecchio aeroporto militare di Chinisia, è esattamente come nel video girato con il cellulare che mi ha mandato con il
bluetooth uno dei detenuti.
Come i container che li tengono in trappola, anche i reclusi vengono dal mare. Sono 83 ragazzi in tutto, in buona parte tunisini, a parte un libico e un paio di marocchini, e sono sbarcati a Lampedusa nei mesi scorsi. Gente comune, escluso qualche galeotto fuggito dalle galere di Ben Ali e quattro omosessuali venuti via da Tripoli per chiedere asilo. Venticinque di loro hanno parenti diretti in Francia e in Italia, e tre sono sposati con donne europee che ogni giorno fanno la spola tra la questura e il cie per cercare di tirarli fuori da lì.
Parcheggiato davanti al cancello c'è un furgone della polizia e una squadra di agenti delle forze dell'ordine. Qualcuno ha portato un vassoio di cannoli siciliani, gli agenti si leccano i baffi davanti alla gabbia, sembrano contenti ma è solo un modo per stemperare la tensione. Perché le rivolte ormai sono quotidiane, e quotidiani sono i tentativi di fughe, le perquisizioni e i pestaggi. Al punto che gli agenti che accompagnano i reclusi fuori dalla gabbia per l'udienza di convalida, tengono la pistola nella fondina senza caricatore, probabilmente per paura che qualcuno possa impossessarsi dell'arma carica.
Dentro la gabbia invece non entra più nessuno. Nemmeno gli operatori sociali o i mediatori culturali della cooperativa Insieme, l'ente gestore, del consorzio Connecting People. I pasti vengono distribuiti attraverso un'apertura ricavata tra le sbarre di ferro, grande abbastanza per farci passare un piatto.
A tenere sotto controllo quello che succede nel campo ci pensano le telecamere a circuito chiuso del campo. Le immagini scorrono h24 su un televisore a schermo piatto in un box fuori dal campo. L'ispettore in servizio controlla le immagini, mentre un agente coccola un cucciolo di cane che la squadra ha adottato dopo averlo trovato abbandonato vicino al cie. Poco distante, due colleghi salgono su una scala di legno a pioli sopra la recinzione dei container, per ispezionare il faretto che i reclusi hanno fatto saltare con una sassata la notte scorsa. Niente di strano, ormai succede ogni notte. Le lunghe scale di legno appoggiate sul lato esterno della recinzione servono a quello.
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Le scale di legno pronte per l'intervento della polizia sui container in caso di fuga |
Appena le telecamere mostrano movimenti sospetti, gli agenti salgono sul tetto dei container e intimano a tutti di rientrare nelle tende. Quando è troppo tardi e i reclusi sono già sui container, l'ordine è di prenderli a sassate. Proprio così. Gli agenti raccolgono le pietre tra i filari dei vigneti intorno al cie e le tirano a chi sale sulla recinzione. Evidentemente un corpo a corpo a cinque metri di altezza sarebbe troppo pericoloso.
Non tutti i reclusi però vogliono fuggire. Una decina chiede al contrario di tornarsene a casa, perché non ne può più. Altri tirano a campare in attesa di vedere quello che succede, e per guadagnarsi i favori di operatori e agenti, ogni tanto informano la polizia dei preparativi per la fuga. In quel caso gli agenti entrano in tenuta antisommossa, come è successo a metà giugno, e perquisiscono tenda per tenda, portando via le corde fai da te messe insieme dai detenuti per scappare. Sì perché non è cosa da poco scavalcare un muro di container alto cinque metri.
C'è chi annoda insieme le lenzuola, e chi invece lega cinture, pantaloni e altri vestiti. Al resto ci pensa Zarga. Un tunisino, lo chiamano così di soprannome per via degli occhi azzurri,
zarqa' in arabo. È il ragazzo più agile. Lui si arrampica in pochi secondi a mani nude nell'intercapedine tra due colonne di container e quindi fissa le corde che gli tirano gli altri dal basso. Dopodiché, grazie alle corde, ognuno sale più in fretta possibile e tenta di darsela a gambe levate.
Tuttavia questo metodo non ha mai dato grandi risultati. In due settimane l'unico che è riuscito a scappare è stato Zarga, l'uomo ragno. Alla fine però, la grande fuga progettata e riprogettata ogni giorno nei minimi particolari c'è stata lo stesso.
È accaduto la sera del 23 giugno, quando in pochi minuti scorso sono riusciti a scappare 59 degli 83 reclusi del campo di Chinisia. Senza corde e senza Zarga. Ma soltanto e soprattutto per un grandissimo senso di indignazione. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una donna.
Si chiama Winny, ed è la moglie di Nizar. Ne avevamo
già parlato due mesi fa. La ragazza olandese di 23 anni sposata con un 29enne tunisino sbarcato a Lampedusa e di lui incinta ormai all'ottavo mese. Da due settimane si presentava mattina e pomeriggio al centro espulsioni di Chinisia per i colloqui con il marito.
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Winny e Nizar durante una sua visita al cie di Chinisia |
Giovedì pomeriggio però dal centro è andata via in ambulanza, con forti contrazioni che facevano temere un imminente parto prematuro. Nizar non ha potuto nemmeno salutarla, l'avevano già riportato in gabbia prima che lei si sentisse male. L'ha vista da dietro le sbarre mentre saliva sull'ambulanza e andava via. Oltretutto lei aveva la batteria del telefono scarico e non potevano più comunicare. La sua indignazione e la sua umiliazione, come uomo e come padre, si sono trasformate nell'indignazione e nell'umiliazione di tutti.
Dietro la calma apparente delle ore successive ognuno si è preparato a modo suo alla rivolta, smontando i tubi delle strutture portanti delle tende, per armarsi di ferri con cui aggredire gli agenti delle forze dell'ordine e difendersi in caso d'attacco. Poi per non dare nell'occhio si sono schiacciati vicino ai container, a lato del cancello, in una zona non coperta dalle telecamere, aspettando il momento opportuno.
E quando, intorno alle 21:00, gli agenti hanno aperto il cancello per far entrare un nuovo recluso appena trasferito, è scoppiata la rivolta. In massa si sono messi tutti a spingere contro il cancello fino a farlo spalancare e infine hanno avuto la meglio negli scontri con gli agenti delle forze dell'ordine riuscendo poi a fuggire disperdendosi in ogni direzione tra i vigneti e gli oliveti che circondano il campo, coperti dal calar della notte.
Il giorno dopo, le forze dell'ordine sono riuscite a rintracciare tre dei 59 fuggitivi. E gliel'hanno fatta pagare per tutti. Secondo testimoni oculari attendibili, i tre sono stati portati in una tenda all'esterno del campo, normalmente usata per i colloqui e per la macchinetta automatica del caffè. Lì, agenti delle forze dell'ordine li avrebbero obbligati a spogliarsi nudi e quindi li avrebbero picchiati in modo brutale. Chi ha assistito alla scena parla di sangue schizzato dappertutto. Non abbiamo avuto modo di parlare direttamente con i feriti anche perché non vogliamo esporli a possibili ritorsioni.
I tre nel frattempo hanno avuto modo di parlare con il parlamentare Jean Leonard Touadi (Pd) che dopo aver fatto visita al
Cie di Palazzo, lo scorso 27 giugno ha visitato anche il centro di Chinisia
chiedendone la chiusura immediata. Da parte sua la Prefettura di Trapani
si è limitata ad annunciare che a giorni aprirà sempre a Trapani il nuovo centro di identificazione e espulsione di Milo, con una capienza di 204 prigionieri, che dovrebbe permettere lo svuotamento temporaneo del campo di Chinisia, ma non la sua chiusura.