In prima istanza, è opportuno sgombrare il campo da equivoci e fraintendimenti, mettendo in chiaro la reale natura della questione: la veglia di preghiera in oggetto ha quale finalità quella di esprimere un fermo rifiuto nei riguardi delle discriminazioni e delle violenze di cui le persone e le coppie omoaffettive sono state e continuano ad essere, a più riprese, vittime. Qui, dunque, la questione non riguarda le benedizioni di queste coppie, né, direttamente, la liceità in ambito ecclesiastico del loro orientamento: qui si tratta dell’aperta e reiterata violazione di un diritto della persona (umano, prima ancora che civile), rispetto alla quale il magistero cattolico, sino ad oggi, si è dimostrato incapace di pronunciarsi con la necessaria chiarezza.
Tale incapacità, a giudizio di chi scrive, non è affatto accidentale: mi pare infatti che si possa ravvisare, nelle gerarchie vaticane, una diffusa reticenza a trattare l’omoaffettività come un aspetto che si inscrive in tutto e per tutto nella sfera dell’«ordine naturale», per utilizzare un linguaggio caro al cattolicesimo tomista, o dell’umano intreccio di sentimento e desiderio, per ricorrere ad espressioni che mi paiono più consone poiché più al passo con il progresso delle scienze umane. Il vero problema, come assai acutamente rileva il filosofo Umberto Galimberti, risiede con ogni probabilità nel fatto che il cattolicesimo si rifiuta di accettare l’ipotesi secondo cui la responsabilità «di formulare una morale che possa valere per tutti gli uomini [è di pertinenza della] ragione umana, come da duecento anni si è incominciato a fare a partire dall’Illuminismo» (Umberto Galimberti, Il segreto della domanda, Apogeo, Milano, 2008, p. 58).
L’approccio del magistero cattolico, infatti, è chiaramente pre (se non espressamente anti) illuminista, poiché in esso la ragione e la libertà di coscienza dei credenti sono subordinate, più che vincolate, ai pronunciamenti ex-cathedra e, pertanto, all’accettazione acritica del principio d’autorità. Mi pare evidente che un’impostazione di questo tipo mantiene (intenzionalmente) il fedele in quello che Kant definiva «stato di minorità», nel quale alla fede è impedito di crescere poiché le è precluso pensare, interrogare ed interrogarsi.
Alla luce di questa breve disamina, domando e mi domando: dov’è quel «popolo di Dio», soggetto attivo e costante dei documenti del Concilio Vaticano II (così spesso richiamato e così frequentemente disatteso), che all’obbedienza mostra di preferire una fede matura e critica, anche – e soprattutto – nei riguardi di pronunciamenti magisteriali quantomeno opinabili? Perché questa esiguità di voci fuori dal coro, questo appiattimento sulla linea intransigente ed autoritaria?
Quanto alla sera di giovedì 12 maggio, l’auspicio è quello di vedere di fronte al portone chiuso della chiesa di Santa Lucia donne e uomini indignati, capaci di levare una voce dissonante e di elaborare un pensiero dissenziente ed una fede adulta. Altrimenti questa reiterata condiscendenza darà adito al sospetto, tutt’altro che infondato, di una tacita complicità e costringerà quanti non intendono rassegnarvisi a scegliersi altri interlocutori. Perché un autentico dialogo abbia luogo, infatti, è necessario che si fondi su ragioni piuttosto che su diktat. E in tutta onestà, quanto al tema in oggetto, mentre i diktat paiono ricorrenti, le ragioni addotte si dimostrano del tutto inconsistenti.
Trapani, Domenica 8 Maggio 2011 – Alessandro Esposito
(Pastore Valdese presso la chiesa di Trapani e Marsala)