una parola liberatrice? È dimenticare l’offesa? Metterci una pietra sopra? Ricostruire un rapporto rovinato? Ci vuole il perdono solo per grandi colpe, gravi delitti, o anche per piccoli torti, banali disaccordi nel quotidiano? È lo stesso perdono? E infine: chi deve perdonare: tante volte, nella vita di tutti giorni, il torto sta dalle due parti, non da una sola. Nella Bibbia il perdono di Dio è strettamente collegato a quello tra gli esseri umani. Gesù ha perdonato quelli che non sapevano quello che facevano, cioè non avevano consapevolezza di compiere il male. Ma lui, appunto, era Gesù, noi siamo essere umani. E allora ? Roberta Colonna Romano – Venezia Mestre
Questa lettera, con tutte le sue domande, illustra bene l’estrema complessità della questione del perdono. Ma prima di affrontarla, è il caso di spendere una parola sulla centralità del perdono nella rivelazione biblica e quindi nella esperienza nella vita cristiana. La centralità del perdono. Non è un caso che ogni culto cristiano cominci con una confessione di peccato, personale e collettiva, seguita dall’annuncio del perdono a chi si pente e crede in Cristo, e che ogni volta che diciamo il Padre Nostro – la preghiera quotidiana del cristiano – gli chiediamo, tra le altre cose, di «rimetterci i nostri debiti, come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori» (Matteo 6, 12). Il perdono è quotidiano, come il pane: il pane nutre il corpo, il perdono nutre l’anima. «Le compassioni di Dio si rinnovano ogni mattina» (Lamentazioni 3, 22). Israele, il popolo di Dio, nel corso della sua lunga storia, ha tante volte fatto l’esperienza del peccato, a livello sia collettivo (il vitello d’oro!), sia individuale (il doppio peccato di Davide: adulterio e omicidio). Ha fatto anche l’esperienza del perdono, come pure quella dell’ira e del castigo divino in tante occasioni (dal libro dei Giudici fino all’esilio di Babilonia). Ma alla fine, il Dio che ha conosciuto attraverso tutte queste esperienze è un Dio «pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà… Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga secondo le nostre colpe. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono. Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe» (Salmo 103, 8-12). La stessa esperienza l’ha fatta e continuaa farla la Chiesa. Essa stessa è il frutto del perdono dei peccati.Se non ci fosse il perdono, non ci sarebbe la Chiesa, che è la comunità dei peccatori perdonati; nel Credo diciamo che è la «comunione dei santi», ma i «santi» non sono altro che i peccatori perdonati.
Ma perché il perdono è così centrale? Perché nell’esperienza umana e cristiana è centrale il peccato, da Adamo in poi, fino ai nostri giorni, e il perdono è l’antidoto divino al peccato umano. Il perdono è il mezzo scelto da Dio per cancellare il peccato senza cancellare il peccatore. La storia della salvezza, che percorre tutta la Bibbia e giunge fino a noi, è la storia del perdono, che cancella il peccato risparmiando il peccatore.
Ma si può cancellare il peccato? Umanamente parlando, no: nulla può essere cancellato di ciò che abbiamo compiuto. Possiamo certo «pagare» (con la reclusione o in altro modo) per il male fatto, ma nessuna pena può cancellare la colpa, e meno ancora risarcire la vittima del danno subito. Secondo l’Evangelo invece il peccato può essere cancellato, anzi l’Evangelo è proprio questo, che il peccato è stato cancellato da Gesù sulla croce. Con le parole del profeta Michea possiamo dire che Dio, in Gesù, ha gettato «nel fondo del mare tutti i nostri peccati» (7, 19). Il perdono dei peccati è la nostra salvezza; non ce n’è un’altra. Non si conosce Dio finché non si sa nulla del perdono. L’esperienza del perdono e l’esperienza di Dio, in fondo, coincidono. «Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto!» (Salmo 32, 1): è un cantico del grande peccatore Davide. Certo, sappiamo bene che particolarmente nella nostra epoca molti negano che esista il peccato, che pure dilaga in misura impressionante nel pubblico e nel privato. Negando il peccato, negano pure la necessità del perdono di cui non capiscono il senso. E dove il perdono svanisce, anche Dio diventa evanescente e presto scompare del tutto. Là dove invece, misurando la nostra umanità su quella di Gesù, prendiamo coscienza del nostro peccato, là c’è la ricerca e l’attesa del perdono, e, ricevendolo, si sperimenta la beatitudine evangelica. La complessità del perdono. Il gran numero di domande che il perdono suscita e che la nostra lettrice ha molto bene individuato, dimostra ad abundantiam la complessità della questione. Nei limiti di questa rubrica, cercherò di rispondere a quattro interrogativi:
[a] Che cos’è il perdono?
L’ho già detto e lo ripeto: è annullare il peccato risparmiando il peccatore. Perché? Non sarebbe giusto che il peccatore paghi per il suo peccato? Sì, sarebbe giusto. Sarebbe stato giusto che l’adultera, colta in flagrante, secondo la legge del tempo,venisse lapidata. Gesù invece l’ha salvata sottraendola alla giustizia della legge e rivelando un’altra giustizia: quella della grazia. Dio ama i peccatori: comprenda chi può. «A mala pena uno muore per un giusto, ma forse per un uomo dabbene qualcuno ardirebbe morire; ma Iddio mostra la grandezza del proprio amore per noi, in quanto che, mentre eravamo ancora peccatori,Cristo è morto per noi» (Romani 5, 8). Ha senso morire per dei peccatori? Secondo la nostra logica, no. Secondo la logica di Dio, sì. Insensatezza? Pazzia? Senz’altro! Ma «la pazzia di Dio è più savia degli uomini» (I Corinzi 1, 25). In realtà, non c’è in cielo e sulla terra mistero più grande del perdono dei peccati. Esso è e resta sotto ogni profilo inspiegabile.
[b] Chi può perdonare?
Qui la risposta è facile: la vittima e solo lei. Simon Wiesenthal ha risposto bene al gerarca nazista che gli chiedeva un perdono che lui non poteva dare. Ma su questa questione cedo la parola all’ebreo Vladimir Jankélévitch sopravvissuto alla Shoà, che in uno scritto intitolato Perdonare? (Giuntina editore, 1987) scrive: «Non vedo perché dovremmo essere noi, i sopravvissuti, a perdonare. Temiamo piuttosto che il compiacimento per la nostra anima bella e per la nostra nobile coscienza, che il rischio di un atteggiamento patetico e la tentazione di avere un ruolo, non ci facciano dimenticare i martiri. Non si tratta di essere sublimi, basta essere fedeli e seri. In effetti, perché ci riserveremmo questo ruolo magnanimo del perdono? (...) Come possono i sopravvissuti perdonare al posto delle vittime, o in nome dei reduci, dei loro genitori o dei loro familiari? No, non spetta a noi perdonare per i bambini che i bruti si divertivano a suppliziare. Bisognerebbe che fossero i bambini stessi a perdonare. Allora noi ci rivolgiamo ai bruti, e agli amici di questi bruti, e diciamo loro: chiedete perdono voi stessi ai bambini».1 Non c’è nulla da aggiungere e nulla da togliere. Se le Brigate Rosse avessero ucciso mio padre, non so se potrei perdonarle; ma qualora ci riuscissi, potrei perdonarle per il male che hanno fatto a me, privandomi di mio padre, ma non potrei perdonarle per il male che hanno fatto a mio padre.
[c] Perdonare sempre? Perdonare comunque?
È vera l’osservazione della nostra lettrice, che spesso certo giornalismo nostrano incalza la persona che ha subito una violenza, un lutto o un danno con la domanda importuna, per non dire sfacciata: «Lei perdona?». La parola «perdono» viene così adoperata irresponsabilmente e quindi svilita, dimenticando che comunque il perdono, quando c’è, «richiede molto tempo e lunga lotta interiore», come dice giustamente la nostra lettrice. Sono note le parole scritte da Dietrich Bonhoeffer sulla «grazia a buon mercato», che egli descrive così: «Grazia a buon mercato è predicare il perdono senza chiedere il pentimento, il battesimo senza la disciplina ecclesiastica, la comunione senza la confessione [di peccato], l’assoluzione senza la contrizione. Grazia a buon mercato è la grazia senza discepolato, grazia senza la croce, grazia senza Gesù Cristo, vivente ed incarnato». Quello che Bonhoeffer dice della grazia, si può e deve dire del perdono. C’è un perdono a buon mercato, che non è quello di Dio e neppure quello del cristiano. Il perdono di Dio non è a buon mercato, è gratuito, cioè fuori mercato. È gratuito perché non ha prezzo.
[d] Il rapporto tra il perdono di Dio e il nostro.
È – lo dice bene la nostra lettrice – un rapporto strettissimo, molto più stretto di quello che di solito pensiamo: noi infatti tendiamo a separare i due perdoni, Gesù invece li unisce inseparabilmente. Oltre che nel Padre Nostro e nel passo dell’offerta sull’altare, che dev’essere preceduta dalla riconciliazione con il fratello offeso (Matteo 5, 23-25), lo si vede bene nella parabola del «servo spietato», al quale il re rimette un debito enorme (diciamo 500.000 euro) e lui non rimette un piccolo debito (diciamo di 50 euro) che un suo collega aveva con lui. Ha ricevuto un perdono immenso, e non è capace di praticare un perdono minimo. Perciò il perdono immenso gli viene tolto, e lui «viene dato in mano agli aguzzini, finché abbia pagato tutto il debito» (Matteo 18, 23-35). Chi non sa perdonare non ha ricevuto il perdono. Chi lo ha ricevuto, diventa anche lui capace di perdonare, cioè di praticare questa cosa assolutamente divina che è il perdono. E lo praticherà non una volta, non sette, ma «settanta volte sette»: parola di Gesù.
1. Ringrazio Gabriella Caramore per avermi fornito questo testo.
Paolo Ricca - da 'Riforma' del 25 marzo 2011