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18/03/2011 12:56:33

Tricolore sí, tricolore no

Dunque, la risposta alla sua domanda è un chiaro e tondo «No!». Il problema però sollevato dalla lettera è più vasto di quello indicato dalla domanda: è il problema del rapporto tra l’identità cristiana e l’appartenenza a questa o quella nazione particolare. Occorre dunque cercare di chiarire che ruolo possa avere (o non avere) la patria terrena nella costruzione della nostra identità di cristiani (o aspiranti tali). In altri termini: nella mia identità di cristiano, c’è posto per il mio essere – poniamo – italiano, o inglese, o cinese, o argentino, o egiziano? Al riguardo, la nostra lettrice sembra avere «dei dubbi» e ci confida non solo che non possiede un tricolore (non è certamente la sola!), ma che non lo comprerà «mai» e ovviamente mai lo esporrà sul suo balcone. Mi permetto di chiederle: Perché questo rifiuto? È proprio necessario, cioè dettato dalla fede? Lei scrive: «Mi sento prima di tutto per la mia identità personale valdese, cristiana e poi italiana». Benissimo! Io direi: «cristiana, valdese e poi italiana», ma il pensiero è lo stesso.
Poi però aggiunge: «In Italia ci sono nata per caso»: ne è proprio sicura? Non credo che il «caso» faccia parte della nostra religione. Gesù non ha mai lasciato intendere che esista un «dio-caso». Ha detto addirittura che neppure un passerotto «cade in terra senza il volere del Padre vostro» (Matteo 10, 29). Dubito che Lei sia italiana «per caso». Nessuno di noi lo è. Tanto meno come valdesi: Lei sa bene, dato che vive alle Valli, che nessun valdese è lì «per caso». Nel 1689 i valdesi sono tornati nelle Valli dalle quali erano stati cacciati nel 1686. Avrebbero potuto benissimo restare nei paesi dove si erano rifugiati e nei quali, infatti, la grande maggioranza degli esuli rimase, adottando come nuova patria quella che li aveva accolti. Ma un manipolo di valdesi tornò, e se oggi ci sono dei valdesi in Italia lo dobbiamo in larga misura a loro. Sicuramente non tornarono per caso, ma per scelta. Volevano essere valdesi in Italia, e non in Svizzera o Germania. Si sentivano chiamati a costituire e costruire una comunità cristiana protestante nella terra dei papi, e non altrove. Era rischioso, ma ci sono riusciti. Non per caso, ma per scelta. Così credo che anche Lei non sia italiana per caso, ma per scelta. Non una scelta sua, ma di un Altro. E il discorso vale per tutti gli evangelici in Italia: nessuno di loro è italiano per caso. Ma torniamo al problema di fondo. Che rapporto c’è tra identità cristiana e identità nazionale? Sono tra loro compatibili o incompatibili? Si possono integrare una nell’altra oppure tendono a escludersi? Aveva ragione o aveva torto l’apostolo Paolo ad appellarsi alla sua cittadinanza romana, quando fu arrestato nel tempio di Gerusalemme e, condotto in una fortezza, stava per essere torturato, e disse al centurione presente: «Vi è lecito flagellare un cittadino romano…?» (Atti 22, 25). Non sembra che Paolo avvertisse una incompatibilità tra il suo essere apostolo di Gesù Cristo e, al tempo stesso, cittadino romano. Comunque, la risposta agli interrogativi ora posti può essere articolata in due punti.
1. Ciascuno di noi ha molte patrie, non solo una. Ha anzitutto la «terra dei padri (e delle madri)» in senso stretto, il luogo dove è nato e, di solito, cresciuto, dove ha imparato a parlare, dove ha cominciato a conoscere la vita, gli altri e il mondo. Lì, di solito, ciascuno ha qualche radice. Poi c’è la patria un po’ più grande, in Svizzera è il «cantone», in Italia è la regione, con i suoi tratti peculiari, le sue tradizioni, comprese quelle culinarie, i suoi dialetti, la sua architettura, il suo canzoniere, e così via: anche quella è una patria, può essere il Piemonte, o la Sicilia, o qualunque altra regione d’Italia. Poi c’è la nazione, per noi l’Italia, che è un mosaico di regioni, ma che ha una sua unità, una storia, una lingua, un cultura, un carattere con pregi e difetti, un grande patrimonio comune costruito attraverso i secoli e tramandatoci dalle generazioni che ci hanno preceduto. Poi c’è l’Europa, anch’essa è una patria; c’è anzi chi l’ha chiamata «la patria delle patrie». E infine c’è la patria più grande di tutte, il grande mondo di cui siamo cittadini (ogni uomo deve considerarsi ed è «cittadino del mondo») e l’umanità di cui siamo parte. Queste patrie hanno tutte il loro senso e il loro valore, certamente relativo, ma reale. Nessuna dev’essere assolutizzata, ma ciascuna può essere apprezzata e persino amata, perché ciascuna è stata o continua a essere il nostro habitat, la nostra casa in questo mondo, lo spazio vitale non solo geografico, ma anche culturale e spirituale che ci ha ospitato e ci ospita, e nel quale si è potuta sviluppare la nostra vita, con tutte le relazioni che ne costituiscono la trama. Ciascuna di queste patrie ci ha dato e ci dà qualcosa, a cominciare dalla lingua. Perciò, per quanto mi concerne, nutro un sentimento di gratitudine nei confronti delle diverse «patrie» che sin qui mi hanno ospitato, compresa la patria italiana. In questo senso volentieri esporrei pubblicamente il tricolore, a esempio in occasione della ricorrenza del 150° anniversario dell’unità d’Italia, proclamata a Torino il 17 marzo 1861. Certo, so bene che c’è una retorica della patria, madre di un patriottismo che facilmente degenera in nazionalismo; c’è persino una metafisica della patria, che spesso diventa una mistica patriottica («Dio, Patria, Famiglia» di infausta memoria), che altro non è che un culto idolatrico. Sì, la patria può diventare un idolo come qualunque altra realtà terrena. Ma nulla di tutto questo alberga nel cuore di un cristiano che espone la bandiera del suo paese. La patria è una realtà terrena, nulla di più, nulla di meno. In essa Dio ci ha posti, affinché in essa viviamo la nostra vocazione. Siamo dunque cristiani e italiani, come l’apostolo Paolo era cristiano e romano. Apparteniamo a Cristo, non all’Italia. Ma apparteniamo a Cristo in Italia e per l’Italia.
2. C’è a proposito del nostro tema, un passo famoso di uno scritto cristiano (probabilmente del II secolo) di autore ignoto, noto come Lettera a Diogneto. Vi leggiamo quanto segue: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese, né per la lingua, né per i costumi. Non abitano in città proprie né si servono di un dialetto a parte… Dimorando nelle città greche o barbare secondo che a ciascuno è toccato in sorte, e conformandosi ai costumi locali nel vestiario, nel cibo e nella rimanente vita, meravigliano tutti per l’organizzazione veramente mirabile della loro comunità.
Abitano le proprie patrie, ma come forestieri; partecipano a tutti i doveri dei cittadini, e sopportano tutti i pesi dei forestieri: ogni terra straniera è una patria per essi, e ogni patria una terra straniera». Leggendo queste righe, pensiamo subito ad Abramo, «venerabile patriarca» e «secondo padre del genere umano» come lo chiama Kierkegaard, il quale «soggiornò nella terra promessa come in terra straniera» (Ebrei 11, 9) – dunque per lui neppure la terra promessa, per quanto agognata, era la patria definitiva, come del resto attestano tutti i patriarchi, che furono «forestieri e pellegrini sulla terra», perché in realtà cercavano una patria «migliore, cioè quella celeste» (Ebrei 11, 14.16).
Infatti, come dice l’apostolo Paolo, «la nostra cittadinanza è nei cieli» (Filippesi 3, 20). Ma la patria celeste non ha una bandiera, tranne – se si vuole – il «vessil della croce», che però non è una bandiera, è la porta stretta attraverso cui passare per morire come «vecchio uomo» e rinascere come «uomo nuovo». Non ci sono dunque bandiere cristiane di alcun genere. La nostra patria è il Regno di Dio vicino, di cui siamo cittadini e testimoni. Ma anche se la nostra cittadinanza è «nei cieli», noi non siamo creature celesti, ma terrestri, e come tali abbiamo una patria terrena, relativa e provvisoria, anzi, come ho detto, ne abbiamo più d’una, perché, come dice Karl Barth, «là dove il comandamento di Dio risuona ed è percepito, le nozioni di paese, di patria e di popolo sono suscettibili di essere allargate, senza per questo perdere il loro significato originario»; e a proposito del «popolo» dice una cosa molto bella che possiamo bene riferire alla «patria»: «Nello spazio che occupa un popolo non dovrebbe essere un muro, ma unicamente una porta»1. Ecco: il 17 marzo esponiamo pure serenamente il tricolore, con l’impegno di contribuire a far sì che questa nostra patria terrena «non sia un muro, ma unicamente una porta».

Nota 1 Karl Barth, Dogmatique, vol. 15 dell’edizione francese, Labor et Fides, Ginevra 1964, pp. 304 e
305.
Paolo Ricca - in “Riforma” dell'11 marzo 2011



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