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08/03/2011 09:44:14

I marinai di Mazara del Vallo, pescatori di uomini

Vorrebbero tanto mietere il grano, si immaginano immersi in campagna, chinati sotto un sole caldo. Hanno invece in sorte il mare, questo mare, che è innanzitutto un campo di guerra.
Perché la pesca è una guerra, un giocarsi il ritorno a dadi. Ogni volta, ogni volta. Perché anche la vita è una guerra. E ogni ritorno è già una partenza è già un altro viaggio.
Ma cosa fanno i marinai quando insieme condividono spazi strettissimi in pescherecci malandati - che i soldi non bastano mai per le riparazioni – e si trovano a parlare lingue diverse. Nei pescherecci mazaresi ormai la maggior parte dei pescatori sono tunisini, marocchini, algerini. Spezzano il pane con i siciliani. Quando digiunano per il Ramadan si ferma anche la pesca. E non è per rispetto. E perché è normale, per i siciliani è stato da sempre normale.
Ma cosa pensano i marinai in questi giorni, quando sempre più spesso si imbattono in barconi di giovani disperati in fuga dai loro Paesi in rivolta? Non pensano i marinai, non pensano. Se si fermassero a pensare avrebbero tutto il diritto di fare finta di nulla, di continuare la pesca. Perché salvare una barca di naufraghi? Per interrompere la battuta di pesca, fare ritorno a casa, subire danneggiamenti per via delle convulse e frenetiche attività di abbordaggio, non guadagnare un quattrino e commettere – agli occhi della legge (ma che cos’è la legge, in mare?) – il reato di favoreggiamento alla clandestinità….
Che affoghino, dovrebbero dire, codice alla mano. Imparino a restare nelle loro sponde, nelle cose loro. Ognuno pensi alla pellaccia sua.
Ma il mare, anche il mare piccolo e stanco del Mediterraneo nostro, non ha confini, e non ha pensieri.
E cosa fanno i marinai con le loro facce sorprese quando incontrano un barcone di uomini con gli occhi pieni di una paura grande quanto gli abissi? Semplicemente, li raccolgono. Non pensano a San Pietro, pescatore di uomini. Ma fanno lo stesso. Caricano corpi in stiva, danno la loro acqua e le loro scorte di cibo, si straziano per quelli che non riescono a salvare, perché il barcone si capovolge, magari, e le onde inghiottono tutti con voracità insaziabile.
Ma quanto piangono i marinai quando incontrano la morte in mare. Salvano cento vite, ne perdono una e si straziano. Piangono come bambini, mischiando acqua su acqua per quei corpi senza lapide.
Poi fanno ritorno a casa. All’arrivo al porto è tutto un correre di ambulanze, coperte, divise con il catarifrangente. Ma per loro c’è solo l’indifferenza dei flash rivolti altrove, il fastidio di chi chiede conto e soddisfazione di una battuta di pesca mancata, una barca da riparare, uno Stato che non farà nulla – proprio nulla- per risarcire almeno un po’ il danno subito.
E allora cosa fanno i marinai? Riposano. Semplicemente, riposano. E poi ripartono, semplicemente ripartono. Un altro carico umano li attende. Nel viaggio li accompagna una preghiera che è vecchia come il mondo, che è di Dio come di Allah perché è innanzitutto una solidarietà tra uomini: “Anime bianche / Anime salvate / Anime venite / Anime addolorate….”.

Giacomo Di Girolamo

 



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