Era una pazzia: e infatti il popolo l’aveva fatto presente a Mosè, a quel povero illuso che avevano imprudentemente accettato come guida.
La protesta che rivolgono contro di lui è veemente, vibrante, di un’ironia amara: «Mancavano forse tombe in Egitto -gli dicono- perché dovessimo venire a morire qui, in questo deserto?». Poi le recriminazioni si smorzano in un’affermazione di rassegnata consapevolezza: «Lo dicevamo noi: era meglio rimanere in Egitto a vivere come schiavi». La morte, del resto, è una prospettiva poco allettante per chiunque: persino l’alternativa di una vita fatta di stenti e di cieca obbedienza, di lavoro massacrante e di quotidiane vessazioni e reiterati soprusi, è comunque preferibile. Come biasimare, dunque, Israele che, come qualunque altro popolo, mostra di preferire la vita, per quanto oppressa, a una morte certa? La schiavitù era comunque garanzia del pane e di un luogo in cui vivere: se l’alternativa, poi, è rappresentata dal vagare incessante e vano nel deserto o, peggio ancora, dalla spada che incombe e che non tarderà ad infilzare corpi stanchi e malnutriti, non c’è da fare poi tanto gli schizzinosi. Quando per generazioni, infine -come è accaduto al popolo ebraico-, sei stato schiavo, non credi più di avere dei diritti, di poterli rivendicare: secoli di dominazione rischiano di introiettare la sottomissione come atteggiamento arrendevole ma inevitabile, quando non addirittura saggio, poiché fonte di sicurezza e di incolumità. Schiavo, sì, ma vivo: e questo, in fin dei conti, è ciò che importa. Qui, invece, la vita è messa a repentaglio: e per che cosa? Per una distesa rocciosa che si estende a perdita d’occhio, per una terra sterile che servirà soltanto da tomba. È stata soltanto una follia, il brivido che regala l’illusione di essere finalmente libere e liberi, il sogno che culla ogni donna, ogni uomo che soccombe sotto il giogo dell’oppressione.
Ma dai sogni, lo sappiamo, la vita viene a risvegliarci bruscamente, ricordandoci che i rapporti di forza non mutano e, pertanto, vanno accettati, perché non è possibile ribaltarli. Chi nasce schiavo muore schiavo: e se si ribella, muore prima. Credere ad un destino diverso da questo è da illusi, da sciocchi, da sprovveduti. E illuso, sciocco, sprovveduto, era stato Mosè; e ancor più il popolo che, nonostante le motivate perplessità, si era infine risolto a seguirlo, lasciandosi incautamente persuadere. Ecco che a questo punto, però, Mosè gioca la sua ultima carta: Dio non avrà certo condotto il Suo popolo sino a lì invano. Interverrà, ne è sicuro: non si tratta di far altro se non di aspettare placidamente, di incrociare le braccia in fiduciosa attesa. Dio verrà in soccorso di Israele e lo metterà in salvo: Mosè non ha alcun dubbio al riguardo. È Dio, però, a sembrare perplesso, persino contrariato: «Perché gridi a me» -chiede a Mosè- «Datti da fare, piuttosto: di’ al mio popolo, Israele, di mettersi in marcia». Sì, perché mettersi in cammino è proprio l’atteggiamento che più contraddice la staticità, la paralisi a cui ogni schiavitù, inevitabilmente, porta. Dio non interviene a soccorrere la passività, incoraggiandola e dunque, in un certo qual modo, legittimandola: al contrario, chiede a noi donne a noi uomini di collaborare attivamente a quella salvezza che, troppo spesso, attendiamo dall’alto, come una soluzione magica di fronte alla quale saremmo chiamati ad essere, semplicemente, spettatori e spettatrici. Il Dio biblico, però, non è il Dio delle risposte preconfezionate, il Dio del «siediti e aspetta»: è piuttosto il Dio che ci sprona all’azione, che ci vuole audaci, collaboratrici e collaboratori di una liberazione che ci viene offerta, sì, ma non regalata.
Il Dio dell’Esodo è un Dio che si affida alle capacità umane e le sollecita: è un Dio che crede in noi, che viene in aiuto alla nostra debolezza, al nostro sconforto, senza con questo sostituirsi a noi, senza chiedere che veniamo meno alla nostra responsabilità, senza risparmiarci la gioiosa fatica dell’alzarci e del metterci in cammino. Quella fede che spesso ci viene presentata come un affidarsi passivo è pericolosamente vicina alla rassegnazione, all’esortazione a lasciare che le cose vadano così com’è inevitabile che procedano. Dio, invece, ci invita a metterci in cammino, sfidando, in questo modo, la perenne tentazione dell’immobilità, che porta con sé la visione di un Dio da attendere anziché da accogliere con il gesto concreto di muovere i nostri passi per andargli incontro.
Nell’arco di questi ultimi mesi stiamo assistendo, a poca distanza da noi, a nuovi esodi, a rivolte coraggiose di fronte a situazioni odierne di schiavitù. Il mondo islamico, quello che tanto spesso osserviamo attraverso la lente distorta di un’informazione faziosa e superficiale, sta vivendo una fase di profonda, radicale rivoluzione: interi popoli si stanno ribellando al giogo di tirannie sovente tollerate, quando non imposte, da quel nostro Occidente che ha fatto della democrazia un privilegio a proprio uso e consumo e che talvolta poi, ipocritamente, finge di esportare. Improvvisamente, tutto è in subbuglio: il mondo studentesco, con la sua voglia di novità; il variegato universo femminile, con la sua fantasia e la sua dignità; le classi più povere, con la loro fame di pane e di diritti. Tutto questo, che anche per noi ha rappresentato una conquista e che ci ostiniamo a dare per scontato nelle nostre vite comode e sempre più indifferenti, ci fa paura: perché a chiederlo, adesso, è l’altro.
Quell’altro che, sino ad ora, aveva accettato di vivere in schiavitù e che adesso, improvvisamente, si ribella e chiede di aver accesso ad una libertà che noi non intendiamo in alcun modo condividere, perché temiamo di doverla limitare, venendo a perdere, così, quei benefici goduti a scapito dell’oppressione altrui, la quale, ad essere sinceri, non ci ha mai toccati veramente. Ora quel mondo che pareva sopito si è risvegliato: e, quel che è peggio -secondo alcuni-, bussa alle nostre porte. Spesso lo stretto braccio di mare che separa queste donne e questi uomini dal nostro benessere si richiude su di loro, che giacciono a migliaia sul fondo del Canale di Sicilia, inseguiti, braccati, persino speronati dalle navi poste a tutela della nostra sicurezza. Li abbiamo spogliati per secoli, abbiamo fatto dei loro Paesi terre di saccheggio a beneficio del sistema coloniale, che arricchiva noi deprivando loro. Adesso li temiamo come la peggiore delle catastrofi e facciamo di tutto per tenerli a distanza di sicurezza.
Eppure sta a noi, come dice il nostro brano di oggi, riportarli «sulla terra asciutta», sostenerli nella rivendicazione di diritti troppo a lungo violati, apprendere da loro e con loro la prassi della condivisione, sostituendola alla logica dell’accumulo. Inutile demandare a Dio la responsabilità di soccorrerli: «Perché gridi a me?» -potrebbe domandare a ciascuno di noi, così come ha fatto con Mosè- «Stendi, piuttosto, la tua mano».
Quando si è trattato di depredare, lì le mani si sono stese prontamente: ora che siamo chiamati a protenderle verso chi è in fuga dalla disperazione, ci riscopriamo improvvisamente esitanti.
Il dolore dell’altro, in verità, non ci tocca e, affidando al respingimento la nostra tranquillità, non avvertiamo nemmeno più che, insieme con il fratello e la sorella, stiamo respingendo anche Dio, che sempre meno lambisce le spiagge delle nostre sensibilità inaridite. Da questo Dio, dalle scomode provocazioni che rivolge alle nostre vite e alla nostra fede, ci siamo già da tempo messi al riparo: anche Lui, ormai, non ha più dove sbarcare. Per questo, forse, ha deciso di rimanere in mezzo a quel mare su cui nessuno più stende la mano perché si apra; per questo resta accanto, una volta ancora, alla disperazione di donne e di uomini in fuga dalla schiavitù e dalla morte. Perché Dio, in verità, insieme con loro, è in attesa di noi, di un gesto che si riveli capace di provocare il cambiamento e di riaccendere la speranza: gesto che Egli può accompagnare e sostenere, sì. Ma non sostituire.
Domenica 27 Febbraio 2011 - Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com