Il Castello Utveggio, la costruzione liberty, posta sul Monte Pellegrino che domina la città di Palermo, non sarebbe stata utilizzata per la strage del 19 luglio ’92 contro Paolo Borsellino e la sua scorta. E’ questa la clamorosa conclusione a cui sono arrivati gli investigatori nisseni che stanno conducendo la nuova inchiesta sulla strage di via d’Amelio. Clamorosa perché per oltre dieci anni si è creduto che quello fosse il luogo usato per dare il via alla strage di via d’Amelio, alimentando una delle piste investigative più calde per decrittare l’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta. Oggi, dopo dieci anni di indagini, la Procura di Caltanissetta e la Dia stanno per mettere la parola fine sull’intera vicenda.
L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, condotta dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Gozzo e Bertone e dai pm Marino e Luciani, smentisce la teoria investigativa sul castello Utveggio avanzata da Gioacchino Genchi. “Non abbiamo trovato elementi che possano confermare la presenza di mafiosi e di uomini dei servizi in quel sito il giorno della strage” – spiega un dirigente della DIA a cui la Procura ha delegato gli accertamenti. Decine di interrogatori, sopralluoghi e accertamenti confermano “la friabilità” dell’ipotesi Genchi, tant’è che recentemente anche il procuratore Lari ha definito la pista del castello “un luogo comune”. Secondo Genchi che fin dal 1992 aveva iniziato ad indagare in questa direzione, all’interno di Castello Utveggio avrebbe avuto sede una postazione occulta dei servizi segreti in contatto con importanti uomini di mafia. Ipotesi suggestiva che si basava anche sull’analisi del tabulato telefonico del boss Gaetano Scotto che nel febbraio 1992 aveva chiamato un numero corrispondente ad un ufficio presente all’Utveggio.
“Ciò non significa – si aggiunge dalla Procura nissena – che non vi siano state nella decisione di uccidere Paolo Borsellino convergenze tra Cosa nostra e soggetti esterni”. Vanno ancora esplorate – sostengono gli inquirenti – le fasi esecutive della strage al cui disvelamento ha contribuito Gaspare Spatuzza. Il racconto del pentito potrebbe infatti portare al coinvolgimento di altri personaggi coinvolti nell’uccisione del giudice e ancora rimasti nell’ombra.
Chi era in via d’Amelio a segnalare l’arrivo del giudice, chi ha premuto il telecomando dell’autobomba e dove si trovava il commando? Abbandonata l’ipotesi dell’Utveggio come base, l’attenzione degli inquirenti si è spostata sui palazzi prospicenti a via d’Amelio. Come rivelato dall’Unità il 18 luglio scorso, le indagini si concentrano su uno stabile – nel ’92 appena ultimato – di proprietà di una nota famiglia di costruttori mafiosi in contatto sia con alcuni boss che con l’allora numero tre del Sisde Bruno Contrada, poi condannato per concorso esterno. Le indagini subito dopo la strage– dicono oggi gli inquirenti – avrebbero trascurato elementi importanti, per puntare tutto invece sul falso pentito Vincenzo Scarantino e sul castello. Lo stesso questore del tempo, Arnaldo La Barbera, la cui squadra oggi è sotto inchiesta proprio per la gestione di Scarantino, era convinto che gli attentatori non potevano trovarsi troppo vicini al luogo della strage perché avrebbero corso il rischio di essere a loro volta colpiti. Una convizione che oggi viene smentita.
“Per cercare la verità – dicono alla Dia nissena – bisogna fare pulizia di tanti luoghi comuni e concentrasi su dati reali”. Si conferma così ancora una volta un dato inquietante: per la strage di via d’Amelio le indagini non furono all’altezza, troppi elementi importanti furono trascurati o, peggio, mai portati all’attenzione dei magistrati. I buchi neri della strage, che nessun pentito è riuscito a colmare, rimangono così tanti da far sospettare che la mano mafiosa in realtà cela anche altre responsabilità. Solo scelte investigative errate o una precisa regia?