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14/01/2011 12:51:08

Quando la religione maschera i conflitti

Dev’essere chiaro, a questo proposito, che l’elemento religioso rappresenta appena il pretesto, il velo dietro cui celare il vero oggetto del contendere, che riguarda l’equilibrio politico internazionale e le ragioni economiche che -sempre più- lo determinano. C’è chi ha un chiaro interesse a destabilizzare l’area medio-orientale attraverso la delegittimazione di quell’islam moderato che, da tempo, caratterizza la società egiziana e che ha garantito per decenni la pacifica convivenza tra fedeli musulmani e cristiani. Soprattutto chi ricopre un incarico di responsabilità sotto il profilo religioso e spirituale deve badare a non alimentare il conflitto ma, nella misura in cui ciò gli è possibile, cercare di comporlo: in tal senso credo che l’atteggiamento più saggio sia quello improntato all’educazione alla pace ed al pluralismo religioso da perseguire all’interno della propria comunità di appartenenza e, possibilmente, da non rinfacciare continuamente al proprio interlocutore come una mancanza imperdonabile. Ciascuno è chiamato a rispondere della scarsa propensione al dialogo del proprio contesto sociale e religioso e ad interrogarsi su quanto un’educazione alla fede radicalmente identitaria abbia in realtà contribuito a rendere più difficoltosa la possibilità un confronto. Il veto che alcuni, nella nostra civilissima Italia del profondo nord, vorrebbero porre alla costruzione di luoghi di culto islamici, è animato dal medesimo spirito di ostilità e di intransigenza che si è soliti scorgere soltanto nell’altro ed alimenta allo stesso modo la logica della contrapposizione e del conflitto. Per noi che amiamo, con una certa disinvoltura, definirci cristiani, l’evangelo propone delle tracce di riflessione che portano in tutt’altra direzione e spronano ad un atteggiamento sensibilmente diverso. Il nostro racconto di oggi, in tal senso, è emblematico. Gesù, deciso a recarsi a Gerusalemme ad ogni costo, sa che, per raggiungere la città del Tempio dalla sua Galilea, ha necessità di passare attraverso i territori della Samaria: motivo per cui manda davanti a sé alcuni messaggeri a verificare l’effettiva realizzabilità di questo viaggio. Giunti in un villaggio samaritano, però, coloro che Gesù aveva inviati devono constatare il rifiuto dei suoi abitanti di concedere ospitalità al loro maestro. La motivazione che il testo riporta è chiara: se chi chiede accoglienza ha intenzione di recarsi a Gerusalemme, noi non siamo disposti a concedergliela. Come credo sia noto, infatti, tra samaritani e giudei non correva buon sangue: per cui era tutt’altro che insolito assistere ad una serie di reciproche ripicche, che non sortivano altro effetto se non quello di alimentare ulteriormente un’ostilità antica. In questa logica sembrano trovarsi perfettamente a proprio agio anche i discepoli di Gesù che, constatata l’indisponibilità dei samaritani, propongono al loro maestro: «Perché non invocare la distruzione su coloro che non ti accolgono?». In perfetto stile integralista, la richiesta mantiene intatta sino ad oggi le proprie ottuse ragioni: se non ci accettano, allora annientiamoli; e in questo nobilissimo proposito, inutile dirlo, «Dio è con noi»: affermazione che, nonostante evochi i peggiori orrori della storia, viene ancora ripetuta come un ritornello inquietante. I discepoli di Gesù, dunque, invocano la punizione divina su quanti si rifiutano di accogliere il loro maestro ed il suo messaggio: ma immediato, durissimo, arriva il rimprovero di Gesù, che, nel rivolgerlo ai suoi, non può fare a meno di voltarsi -ci dice il testo- per guardarli negli occhi, a testimonianza di un’irritazione viva e profonda, che lo scuote nell’intimo.   Le sue parole sono anche peggio dello sguardo: «Non sapete di quale spirito siete». Ovverosia: chi vi mette nel cuore tali intenzioni e sulla bocca parole come quelle che avete pronunciate, può essere chiunque, ma non certo Dio. Di più: Gesù sembra nutrire la convinzione che cose del genere possano venire soltanto da uno spirito che contrasta in tutto e per tutto quello di Dio. Quale sia, piuttosto, lo spirito di Dio -senza alcun rimando a dimensioni metafisiche o paranormali tanto amate dai fondamentalisti religiosi di ogni sorta- Gesù lo chiarisce immediatamente: si tratta di uno spirito dalle profonde venature umane. Ciò per esprimere con chiarezza il fatto che ogni gesto divino non può che essere carico di umanità: un Dio che non possegga questa caratteristica non può in alcun modo essere il Dio di Gesù, che è figlio di Dio in quanto è figliol d’uomo, venuto, come sottolinea, per salvare le vite e non per perderle. Nulla, infatti, a Gesù come a Dio, sta più a cuore della vita delle donne e degli uomini: e tutto quanto intenda ostacolarla o, peggio ancora, sopprimerla, non può in alcun modo venire da Dio. In questo Gesù prosegue la predicazione dei profeti d’Israele; così come, sullo stesso sentiero, si pone l’annuncio del profeta Mohammad, secondo cui Allah è Il Misericordioso. Chiunque sopprima la vita dell’altro, può farlo in nome di Dio soltanto se mente: è lui, pertanto ad essere «infedele» alla volontà di Dio, che è, senza alcuna eccezione, volontà di vita e non di morte. Chi desidera la morte della sorella o del fratello, ovvero di qualsiasi donna o di qualsiasi uomo e non appena chi confessa la nostra stessa fede, ebbene, costui è animato da un altro spirito, ma di per certo non da quello di Dio. 

Ciò che è più significativo del nostro racconto di oggi, però, risiede altrove e riguarda il momento del tutto particolare in cui Gesù rivolge ai suoi (non ai samaritani…) le dure parole che abbiamo ascoltate: stando a quanto ci dice il nostro testo, infatti, «stavano per compiersi i giorni in cui [Gesù] sarebbe stato tolto dal mondo». Ci troviamo, insomma, all’inizio di quel cammino che condurrà Gesù sino alla morte di croce: morte alla quale lo consegneranno proprio coloro che vedranno in lui un eretico, un traditore della tradizione d’Israele rettamente intesa ed annunciata. Di fronte a chi crede diversamente, ogni istituzione religiosa si è da sempre mostrata assai più intransigente che con chiunque altro: la libertà d’interpretazione è stata immancabilmente guardata con sospetto e temuta, additata come insolente atto di insubordinazione, irriverente gesto di presunzione, pericoloso focolaio di disobbedienza all’autorità costituita. Ancora una volta, la religione non funge se non da pretesto. Gesù ci indica una via nuova, ancora oggi la meno battuta: quella secondo cui non è possibile accettare la violenza come forma di persuasione che ha il solo scopo di annullare l’altro, riducendolo a mero oggetto del nostro fervore proselitistico, al quale, in maniera del tutto impropria, diamo poi spesso il nome di «fede». La fede però, almeno quella degna del nome, si testimonia, non si inculca: la si lascia percepire attraverso la concreta nudità del gesto. L’altro, poi, potrà -eventualmente- riconoscerla: senza che ciò significhi, però, che debba necessariamente aderirvi. Alcuni, facendo impropriamente le veci di Dio, manifestano o dissimulano preoccupazione per la sua salvezza: a ben guardare, però, nel pieno rispetto dell’altro nella sua legittima, insopprimibile differenza, lì, assai più che altrove, c’è già salvezza.

Pastore Alessandro Esposito - Domenica 9 Gennaio 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com
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