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03/01/2011 15:27:13

Dove sei? - Dio domanda di noi


Gettare uno sguardo su ciò che il tempo ci consente di sperimentare e di diventare è, oltre che inevitabile, opportuno, anche per quanto riguarda il cammino di fede. Alcuni sostengono che si tratti soltanto di una perdita di tempo, di una specie di inguaribile narcisismo, che sottrae energie ed attenzione alla relazione con Dio: a Lui soltanto, affermano, va indirizzato il nostro sguardo. L’introspezione, in questo modo, viene squalificata, a vantaggio di una preghiera della quale non si riconosce fino in fondo la dimensione personale: quest’ultima non consiste nel ripiegamento egocentrico su di sé, ma nell’unicità che caratterizza ciascuna e ciascuno di noi nel suo rapporto con Dio. Il fatto che in questa relazione del tutto speciale vi sia coinvolto io, in tutta la mia complessità e con tutte le mie contraddizioni, non può costituire in alcun modo un aspetto indifferente della questione.   Del resto, è proprio di questa unicità che Dio va in cerca, sollecitandola, invitandoci a riscoprirla. Lo fa in maniera del tutto speciale anche nel nostro testo di oggi, che rappresenta uno dei brani più noti del libro della Genesi. Poiché l’essere umano si è smarrito, Dio si mette in cerca di lui: e lo fa ponendogli una domanda che giunge immutata sino a noi: Dove sei?   A conclusione dell’anno che ci lasciamo alle spalle, questo interrogativo risuona con una forza del tutto particolare: «Dove ti trovi in questa fase della tua vita, in questa tappa del tuo cammino?». Questo è quanto sembra interessare Dio: a che punto ci troviamo o, per lo meno, dove crediamo di essere. Si tratta di una domanda che, normalmente, cerchiamo di evitare, perché, non di rado, ci provoca l’insopportabile sensazione di un vero e proprio imbarazzo di fronte a noi stesse, a noi stessi. Eppure, nel nostro passo di oggi, è proprio Dio a rivolgercela, a testimonianza del fatto che si tratta di un interrogativo essenziale anche per ciò che riguarda la nostra fede. Lo scoglio del rapporto con sé è inaggirabile: o meglio, lo si può evitare, non c’è dubbio; ma il prezzo da pagare, in questo caso, è quello di un’estraneità a se stessi che finisce per allontanarci dall’autenticità. L’educazione protestante tradizionale, in particolar modo quella di matrice calvinista, ha talvolta inteso mettere in guardia dall’indagine di sé ed ancora oggi la teologia riformata di stampo neo-ortodosso la ritiene una sorta di sconfinamento, chiaramente inopportuno, nell’ambito della psicologia. Eppure disinteressarsi di sé può comportare dei rischi notevoli per ciò che riguarda il cammino verso la maturazione di una fede adulta: ce li illustra con chiarezza e non senza ironia lo scrittore francese André Gide, che nel suo romanzo I falsari descrive così un pastore riformato: «È un convinto professionale. Un professore di convinzione. Inculca la fede: questa è la sua ragion d’essere, è la parte ch’egli si assume e che deve condurre sino alla fine. Ma quanto a sapere ciò che si svolge in quello che egli chiama il suo “tribunale interiore”…Sarebbe indiscreto, capisci, andare a chiederglielo. E credo che neppure lui stesso se lo chieda mai. Fa in modo di non avere mai il tempo di chiederselo. Ha infarcito la sua vita di un mucchio di obblighi che perderebbero ogni significato se la sua convinzione si indebolisse (…) Pensa di credere perché continua ad agire come se credesse. Non è più libero di non credere. Se la sua fede vacillasse, sarebbe una catastrofe, un vero crollo!» (Tratto da: GIDE, A. I falsari, Bompiani, Milano, 1990, p. 352)   Capire dove ci troviamo in una fede concepita come cammino e non come possesso, come ricerca di senso e mai come acquisizione definitiva, è un fatto di estrema importanza: diversamente, la possibilità di fingere, sia pure inconsapevolmente, è tutt’altro che remota. Non è non ponendoci domande che evitiamo il pericolo, sempre in agguato, di una fede inautentica: al contrario, lasciare che le stesse Scritture ci interroghino rappresenta l’unica alternativa ad una convinzione che ci affanniamo a mostrare tanto più salda quanto più, in verità, dentro di noi vacilla. La fede è senza dubbio profondo convincimento interiore: ma non nel senso -assurdo, improponibile- dell’estraneità ad ogni interrogativo. Una fede matura e salda non teme le domande: al contrario, lascia che Dio e la vita gliele pongano incessantemente, permettendole, così, di crescere e di cambiare insieme con noi. Nella consapevolezza di questa trasformazione costante ci è dato di poter sperimentare l’autenticità. Il nostro testo la esprime, in maniera estremamente suggestiva, attraverso l’immagine della nudità, che rappresenta quella trasparenza che temiamo più di ogni altra cosa. Buona parte della nostra esistenza, difatti, la trascorriamo ad indossare maschere, a recitare ruoli che ci conducono ad una progressiva estraneità a noi stessi: e la finzione, da strumento attraverso cui ottenere il riconoscimento e l’approvazione, diviene sempre più lo spazio entro il quale viviamo la nostra quotidianità.   Anche nella fede, talvolta, ci sentiamo costretti a fingere, a nascondere persino a noi stessi, a noi stesse, dubbi, perplessità, difficoltà. Dio, al contrario, ci invita a non temerle, ad uscire dal nascondiglio entro cui cerchiamo illusoriamente riparo: intende restituirci alla nostra nudità, che, propriamente, sta all’origine di ciò che siamo ma che, in realtà, nella vita, siamo costretti a recuperare nell’arco di un percorso tutt’altro che semplice e indolore. In questo la fede non dev’essere d’ostacolo, non può sospingerci verso Dio pretendendo di allontanarci da noi, da quell’interiorità che Dio stesso vuole aiutarci a mettere a nudo.   Allo stesso tempo, però, la fede può evitare che cadiamo nella prigione angusta dell’autosufficienza e ci ricorda che Dio è Colui, Colei che intende starci di fronte, perché impariamo a guardarci attraverso i Suoi occhi. In questo sguardo Dio esprime amore e non giudizio, misericordia e non condanna: e questo è anche lo sguardo che Egli vorrebbe che fossimo capaci, attraverso di Lui, di indirizzare a noi stesse, a noi stessi.    Senza l’esperienza della relazione questo sguardo non lo possiamo apprendere e restiamo immancabilmente inchiodati al costante bisogno di nasconderci, non solo agli occhi di Dio, ma persino ai nostri stessi occhi, di cui -ancor più, forse- temiamo il giudizio impietoso. Dio ci domanda di noi perché a noi, attraverso di Lui, possiamo fare ritorno: la fede, infatti, non è cammino di alienazione, ma di riconoscimento. Dio desidera che lo percorriamo al Suo fianco, con sincerità, ma, insieme, con serenità. Il suo domandare esprime sollecitudine, non accusa; premura, non inquisizione.   «Dove sei? Io ti voglio qui, di fronte a Me: dalla mia presenza, difatti, non hai ragione di nasconderti. Io ti riconduco sino a te stessa, a te stesso: al di là di quella paura che il Mio amore non alimenta, ma scaccia via. Io sono il Dio che va in cerca di Te e che di cercarti non si stanca mai: esci dal tuo nascondiglio e riprendi il cammino che conduce a Me: su questo stesso sentiero, ti restituirò alla tua nudità».   Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com Domenica 2 Gennaio 2011
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