Secondo la Procura Generale, infatti, la motivazione della sentenza d’appello è illogica e contraddittoria. Le prove sono state travisate. Le norme non applicate o mal interpretate.
Ricostruiamo insieme la vicenda. Il processo Pizzo ha avuto ad oggetto le indagini effettuate a partire dal 1999 nei confronti di numerosi appartenenti alla famiglia mafiosa di Marsala. Nel 2002 le indagini sono sfociate nell’arresto di numerosi personaggi. Era l’operazione “Peronospera”.
Tra gli altri viene arrestato Marino Concetto, dipendente del Comune di Marsala, prima come vigile urbano, poi come addetto all’ufficio biciclette. Dopo due mesi dall’arresto, Concetto decide di collaborare con la giustizia.
Dalle dichiarazioni di Concetto nasce l’operazione “Peronospora 2”, che prende spunto proprio dalla ricostruzione di alcuni episodi narrati da Concetto e che riguardano gli intrecci tra criminalità e politica a Marsala tra il 200 e il 2001. Pietro Pizzo rientra in questa seconda tranche dell’operazione Peronospera. A lui viene contestato il reato di voto di scambio politico mafioso (art. 416 ter codice penale). E viene condannato a 4 anni d reclusione, in primo grado.
Cosa viene contestato a Pizzo? Di aver acquistato un pacchetto di mille voti promesso dalla famiglia mafiosa di Marsala durante le elezioni regionali del 2001, nelle quali il figlio Francesco era candidato.
Quali prove sono state acquisite nel processo per dimostrare l’esistenza di un preciso accordo politico - mafioso? Sono state innanzitutto ricostruite le rivelazioni di Concetto, che è stato dichiarato attendibile. Cosa ha dichiarato Concetto? “In cambio dell’appoggio elettorale della famiglia mafiosa di Marsala, capeggiata da Natale Bonafede, Pizzo aveva concordato di pagare, al termine di una breve trattativa, la somma di 100 milioni di lire in tre soluzioni prima delle elezioni”. Ma poi aveva consegnato a Concetto solo 80 milioni in tre rate. E i restanti 20 milioni ? “Dovevano essere pagati dopo le elezioni – racconta nel processo Concetto – ma Pizzo aveva ottenuto uno sconto, tenuto conto della mancata elezione del figlio Francesco”. E quindi Pizzo, dopo le elezioni, consegna al dipendente del Comune solo 10 milioni delle vecchie lire, anziché i 20 pattuiti.
Il racconto di Concetto è molto dettagliato: “Pizzo mi mandò a chiamare tramite mio padre. Io lo raggiunsi nella segreteria di Via Calogero Isgrò. Mi disse che il figlio era candidato alle Regionali e che lui stavolta non avrebbe badato a spese”. Concetto parla di questa situazione con Natale Bonafede che risponde a Concetto di accertarsi su quanto Pizzo è disponibile a uscire. Concetto dunque, a casa di Pizzo, contratta il prezzo per il pacchetto di voti, e pattuisce la cifra di 100 milioni. Nasce anche un disguido, perché contemporaneamente la famiglia si è anche impegnata con David Costa (ma questa è un’altra storia, e un altro processo…).
A questo racconto di Concetto ci sono diversi riscontri. Innanzitutto le dichiarazioni di Vincenzo Laudicina. All’epoca dei fatti era consigliere comunale. Poi si è ritrovato imputato in un procedimento di mafia, ed è diventato “collaborante”. Laudicina conferma che “la famiglia mafiosa si era impegnata con il senatore Pizzo per sostenere la candidatura del figlio Francesco”. E come faceva Laudicina a saperlo? “Si trattava di notizie apprese da Vincenzo Giglio, Vito Vincenzo Rallo e Angelo Galfano, appartenenti alla famiglia mafiosa di Marsala”. Ma Laudicina aggiunge anche che lo stesso Pizzo, dopo l’arresto di Mariano Concetto, gli confidò che aveva paura che questi parlasse dei loro “affari”.
Ci sono anche delle intercettazioni, a conferma della trattativa. Sono tre intercettazioni in casa di Laudicina. Siamo tra il Febbraio e l’Aprile del 2003. Laudicina parla due volte con la moglie Ivana e una volta con Antonino Alagna (è il 30 Aprile del 2003) di una “compravendita di voti” in cui erano coinvolti sia Pizzo sia un altro candidato di quelle elezioni regionali, David Costa.
Anche un altro Laudicina, Fabio, anch’egli all’epoca dei fatti consigliere comunale, ascoltato come teste ricorda che in due occasioni Vincenzo Laudicina gli aveva raccontato che Pizzo aveva pagato nel 2001 la mafia locale in occasione delle elezioni regionali in cui era candidato il figlio Francesco.
C’è un altro teste, Roberto Gallo. All’epoca dei fatti era addetto alle pubbliche relazioni di una discoteca molto nota di Marsala, l’Octopus. Ed era membro del comitato elettorale di Francesco Pizzo per quelle famose elezioni regionali del 2001. Gallo ricorda di aver organizzato una cena elettorale per circa 30 persone. Seduti a tavola c’erano, tra gli altri, Pietro Pizzo e Mariano Concetto, “che erano stati visti colloquiare tranquillamente, e anzi con una certa affabilità”.
E, infine, c’è un’ultima intercettazione ambientale. E’ il 28 Maggio 2001. All’interno di un automobile parlano Vincenzo Giglio e Vito Vincenzo Rallo, entrambi appartenenti alla famiglia mafiosa di Marsala. Parlano espressamente delle imminenti elezioni regionali e del fatto che il Senatore Pizzo era disposto a pagare la somma di 50 – 100 milioni di lire.
RALLO: “….Ma vedi che Pietro Pizzo io dico che non ce la fa….oh!”
GIGLIO: “…Ma che cazzo te ne fotte…quello vuole uscire 50 milioni …100 milioni…”
RALLO: “Pietro Pizzo?”
GIGLIO: “Unca!”
RALLO: “Uh!”
GIGLIO: “E questo Davide Costa ne vuole uscire altri cento…
(…)
GIGLIO: “Tra Pizzo e Davide Costa….soldi ci sono…”
RALLO: “Lo so…soldi ci sono….”
Dunque: si tratta di soggetti definiti “di indubbia caratura mafiosa” nella famiglia di Marsala. La conversazione avviene nel pieno delle elezioni regionali del 2001.
Oltre a questo quadro di prove, i giudici ne aggiungono un altro frammento. Pizzo aveva già in passato comprato voti dai mafiosi: lo dice il collaborante Antonio Patti, autorevole esponente della famiglia mafiosa negli anni ’80. E’ il 1986 quando, secondo Patti, Pizzo chiede al capomafia voti per le elezioni in cui era personalmente candidato . Paga la somma di 10 milioni di lire.
Nella sentenza del Tribunale di primo grado, Pizzo viene condannato anche sulla base di altri elementi probatori. In particolare vengono fatti degli accertamenti bancari, dai quali risulta che da un particolare conto corrente bancario Pietro Pizzo aveva effettuato alcune operazioni che gli avevano consentito di crearsi una provvista di 120 milioni di lire proprio nel periodo a ridosso delle elezioni regionali. Secondo i giudici è verosimile che quei soldi servivano per pagare le tre rate per l’acquisto del pacchetto dei voti.
La Corte d’Appello conferma punto per punto la ricostruzione del Tribunale. C’è stato l’accordo per l’acquisto dei voti, dunque. Ma per i giudici di secondo grado “l’accordo è stato raggiunto per interessi personalistici di basso profilo di singoli interessati piuttosto che per interessi del sodalizio o in sua rappresentanza”. In altre parole: Pizzo ha pattuito una compravendita di voti con Concetto, ma per interesse personale di questi, non certo in rappresentanza di Cosa Nostra.
Nonostante riconosca dunque la validità delle dichiarazioni di Mariano Concetto e di Vincenzo Laudicina, la corte d’Appello le interpreta in questo modo: non c’è stato alcun impegno da parte della famiglia mafiosa di Marsala, ma solo di alcuni singoli esponenti. Per la Corte d’Appello, inoltre, non è chiara la natura dell’accordo, quali impegni ha preso Pietro Pizzo a sostegno di Cosa Nostra, quale apporto concreto ha dato l’accordo con Pietro Pizzo all’organizzazione criminale.
Dalle dichiarazioni di Concetto, però, emerge in maniera indiscutibile l’accordo elettorale concluso da Pietro Pizzo non con singoli soggetti appartenenti alla famiglia mafiosa di Marsala, ma con i vertici della famiglia mafiosa stessa, per ottenere 1000 voti in cambio di 100 milioni di lire. Tra l’altro l’entità del pacchetto dei voti è tale da far pensare che lui era perfettamente consapevole di rivolgersi ad una struttura ramificata nel territorio, in grado di reperire tutti quei voti. “Pizzo – scrivono i giudici nel ricorso in Cassazione – era perfettamente a conoscenza del ruolo svolto da Mariano Concetto, che non agiva a titolo personale, ma su incarico della famiglia mafiosa di Marsala, e in particolare del suo capo, Natale Bonafede”.
Ma c’è di più. Perché la Corte d’Appello ha ritenuto che Pizzo non ha mai aiutato concretamente Cosa Nostra. E questo è vero, è dimostrato. Il problema però è che il capo di imputazione per Pietro Pizzo non era il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa (416 bis) come per un altro assolto illustre, David Costa. Per Pizzo invece il reato contestato e il 416 ter, cioè lo scambio elettorale politico – mafioso.
Nessuno ha mai addebitato a Pizzo di aver fatto chi sa quale patto con la mafia. Quello che gli veniva contestato era altro: l’erogazione di denaro in cambio di una promessa di voti.
Insomma, secondo la Procura, la Corte d’Appello ha fatto confusione, ha mischiato un reato con un altro, e ha cercato il patto politico – mafioso anziché la semplice promessa di appoggio elettorale in cambio di voti.
E’ su questo equivoco che si basa il ricorso in Cassazione per annullare la sentenza: “Non ha alcuna rilevanza – sostengono i magistrati – accertare i contenuti dell’accordo tra Pizzo e la famiglia mafiosa di Marsala, o capire se l’organizzazione criminale si è avvantaggiata o meno da tali accordi”. Hanno sbagliato reato. Piuttosto, “conta accertare soltanto se c’è stato o meno l’accordo elettorale: voti in cambio di denaro”.
A chi darà ragione la Cassazione?