Nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi, tenuto dal ministero degli Interni, per quel che riguarda la criminalità organizzata, ci sono otto camorristi, sei mafiosi e cinque appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese. Dal 2006 ad oggi sono stati catturati 12 latitanti. La latitanza più lunga è stata quella di Bernardo Provenzano, durata 43 anni, dal settembre 1963 all’11 aprile 2006. Totò Riina r
imase in fuga dal 1969 al 15 gennaio 1993, Salvatore Lo Piccolo dal 1983 al 5 novembre 2007 . I boss mafiosi rimangono latitanti «a casa loro», perché così è più semplice tenere i contatti ed esercitare il potere su gregari, picciotti e sul «popolo» di Cosa Nostra. Vito Badalamenti, che vivrebbe fra Sudamerica e Australia, è l’eccezione che conferma la regola: il padre era uno dei «triumviri» di Cosa nostra, poi fu «posato», messo fuori dall’organizzazione, e da morte sicura lo salvarono l’arresto in Spagna e la condanna negli Usa, dove morì in cella l’1 maggio 2004. Forse per gli stessi motivi Vito rimane lontano dall’Europa e sfugge alle ricerche dal 1995.
Le ultime esperienze hanno dimostrato che i latitanti preferiscono la vita quasi monastica: Nino Giuffrè, uno dei capi della commissione, l’organo di vertice della mafia, il 16 aprile del 2002 fu catturato in un casolare di montagna. Provenzano, il capo dei capi, in una masseria vicino Corleone. Non è una bella vita: il vero capo sa che deve patire per rimanere libero e continuare ad esercitare il potere. Ma i boss non rinunciano agli incontri con i familiari e con le donne. Erano celebri le «fughe d’amore» di Rosalia Stanfa, moglie di Giuffrè. Mimmo Raccuglia trascorreva due mesi all’anno con la moglie, che spariva improvvisamente da Altofonte, in estate, per ricomparire in autunno: è così che ha concepito due dei suoi figli. Come lui, il ventinovenne Gianni Nicchi, rimasto latitante per quattro anni. E Sandro Lo Piccolo aveva una tenera corrispondenza con tre amanti.
La comunicazione avviene scrivendo su carta: la grafia o la macchina da scrivere, formulette rituali, codici e altri sistemi arcaici ma efficaci, fanno riconoscere il capo latitante. Il sistema si regge su una rete di fedelissimi che fanno da collettori e che poi smistano i «pizzini».
Il metodo della ricerca dei latitanti si è notevolmente evoluto negli ultimi anni. Prima si impiegavano anni e notevoli somme di denaro per pagare confidenti e cercare di ottenere informazioni. La tecnologia e l’uso dei telefoni cellulari, le microspie e le intercettazioni, che da alcuni anni sono possibili pure all’aperto, le telecamere che consentono di riprendere immagini a chilometri di distanza, hanno semplificato le ricerche. Individuati i possibili contatti, li si mette sotto controllo fino a quando non si capta il colloquio giusto e l’indicazione utile.Il latitante è scaltro, ha una rete tale che pochissimi conoscono l’ultimo contatto. Coloro che davano la caccia a Provenzano smantellarono le reti dei fiancheggiatori e «Binu» dovette cambiare tutto per tre volte in tre anni. Fino a quando non fu individuato.