L’Italia vista da Guzzanti è un paese che carambola su tre sponde: economia, scuola, chiesa. I suoi personaggi vivono nella caricatura con una normalità che li rende quasi gradevoli. Il Ministro Tremonti, con il popolo affamato sotto la finestra; Fausto Bertinotti, fautore del voto dilettevole; Padre Pizzarro uomo di fede ma soltanto per lavoro. La presentazione di questi personaggi si interseca all’interno di una trasmissione televisiva, come ne “Il caso Scafroglia”, dove il presentatore Guzzanti conversa con padre Federico.
La spendita del nome Berlusconi nel Recital è singolare. Il Re non è nudo, anzi, indossa un vestito a doppio petto e calza scarpe col cric. Guzzanti non fornisce alternative alla crisi (ed in questo sembra contiguo alle norme statutarie del PD) ma alla fine dello spettacolo, quando gli attori salutano per andare in un’altra città per l’ennesimo “tutto esaurito”, ci fornisce un indizio. Se lavori per l’interesse del pubblico, ottieni consenso. Se ti circondi di persone capaci, la loro credibilità rafforza la tua. Gli esempi sono rappresentati da Caterina Guzzanti e Marco Marzocca. Caterina ha cominciato la sua carriera nel ’97. Da quel momento ha cominciato a ricamare partecipazioni in trasmissioni televisive e radiofoniche, musical, ha metabolizzato tante comparse per il cinema fino ad ottenere un ruolo da prima attrice in Boris, la serie tv italiana più accattivante degli ultimi 150 anni, ma per davvero. Dimostra che si può fare l’attrice a certi livelli senza bypassarsi attivamente nel gossip nostrano, senza realizzarsi dei reality ed evitando di seguire le elezioni presidenziali americane a Palazzo Grazioli. Intanto ci regala una Maria Stella Gelmini così contagiosamente calabrese da giustificare agli occhi di Dio l’esistenza della Calabria, almeno per confortare Antonello Venditti. La stessa considerazione vale per Marco Marzocca. Che interpreti il notaio reazionario, il filippino svampito o Cassiodoro il picchiatore, come in Recital, riesce a sganciare le sue creature dalla stanzialità televisiva rendendo la loro esistenza una godevole eventualità.
Questo è il metodo Guzzanti. Una squadra ottima, una regia che enfatizza gli innesti, ma soprattutto Guzzanti è bravo a non colpevolizzare il suo spettatore. Il paese è alla deriva, l’opposizione non esiste, l’economia ha anoressizzato le famiglie, ma lui non infligge il senso di colpa. Non suggerisce alcun appuntamento in piazza, già sono piene di disoccupati pronti a votare il primo che sussurra le sillabe LA-VO-RO, non rigorosamente in sequenza logica, basta che siano diluite nel periodo. Non invita la gente a gridare vaffanculo perché sa che in Italia, se qualcosa o qualcuno si muove in direzione di un ipotetico culo, il culo destinato sarà quello degli elettori. Guzzanti si attiene al suo lavoro, fare jo-jo con l’anima di chi impersona, scucire i pensieri che la metà senziente di essi mette a tacere in virtù della posizione sociale assunta. Perché Guzzanti sa che il Re, una volta finito lo spettacolo non è più nudo, si rimette il doppio petto e le scarpe col cric. E se ne va senza un inchino.
Francesco TImo