Una tragedia annunciata, senza che tuttavia questo sia servito a prevenirla. Una tragedia che deve fare i conti con molte questioni aperte, nessuna delle quali di facile soluzione. Una tragedia annunciata, dicevamo. Annunciata da anni di gestione, priva di qualsiasi visione strategica e commerciale, ancorata a vecchi rituali, incapace di leggere il mondo in evoluzione. Una gestione ottusa e una politica ancora più cieca, uniche ragioni che spiegano perché in altre parti dell’Italia con un ettaro di terra si vive e qui, con 10, nemmeno si sopravvive.
Cosa rimane agli agricoltori? Per molti di loro, la terra non vale più nulla. Solo, forse “quintali di carte che siamo costretti a riempire” – come ci racconta un “addett
o ai lavori”, per questa o quella norma da rispettare, per questa o quella pratica da seguire. Carte, che non servono poi a molto, se non a pagare personale che se ne occupi, “per comunicare dati, scrivere cifre e numeri, per far capire a chi viene a fare controlli che tutto è lineare e trasparente, per poi alla fine, dimostrare che siamo un paese che rispetta le leggi, a costi inverosimili, per non mancare a quei controlli spietati che tutti gli uffici preposti vengono ad eseguire”. Si chiede agli agricoltori di essere in regola con tutto, si deve attestare la regolarità contributiva e avere la certificazione antimafia. Giusto, giustissimo. Come è giusto combattere il lavoro nero. Ma forse è un po’ meno giusto spingere sul fondo chi già ci sta arrivando da solo. Perché vanno bene le multe contro chi sfrutta il lavoro nero ma molti agricoltori non capiscono perché non si possa più andare a vendemmiare con amici e parenti, rischiando una multa di 4.200 euro a persona (per non parlare delle conseguenze penali nel caso di uno straniero, per sfruttamento dell’immigrazione). Una volta, la vendemmia si faceva così: tu vieni a vendemmiare da me, io aiuto te. Era anche un modo di ottimizzare le risorse. E ridurre i costi. Ora non si può fare più. Ora devi avere solo operai regolarmente retribuiti. “Io li metterei pure tutti in regola – ci ha detto francamente un agricoltore – ma non ho soldi. Se dovessi metterli tutti in regola, farei prima a lasciare l’uva dov’è”. Se allora c’è un sistema di grande irregolarità, bisognerebbe chiedersi il perché.
Semplice: perché i costi sono più alti dei guadagni. E gli agricoltori non sanno che fare. Mettere un lavoratore in regola, costa all’imprenditore agricolo circa 15 euro al giorno. In pratica, fra contributo e retribuzione, 15 giorni di vendemmia di un operaio in regola, costa quasi 1000 euro. In alternativa, per aziende con un fatturato sopra i 7mila euro, lo Stato ha pensato ai voucher. Una specie di “buono”, si potrebbe dire, del valore di 10 euro, con cui pagare i lavoratori. Ma solo studenti e pensionati. Al momento in cui il lavoratore però va a scambiare i voucher con del denaro vero, il valore reale è di 7.50 euro, perché 2,50 euro servono a coprire Inps e Inail.
Ma il costo dei dipendenti non è l’unico problema. C’è il costo della benzina, il costo dei lavori vari da eseguire durante l’anno, il costo dei fertilizzanti – che di anno in anno subiscono aumenti stratosferici – e soprattutto c’è il prezzo dell’uva.
Quello, in tutta questa situazione, è l’unico che scende. Di anno in anno. In maniera irreversibile.
I costi invece crescono. E, se si vuole andare avanti, bisogna necessariamente affrontarli. Ma per cosa?
“Per poi vederci pagare l'uva a 10 euro al quintale – dice sempre il nostro “addetto ai lavori” - ed una bottiglia di vino che scende dal nord Italia, vedersela sugli scaffali a circa 1 euro. Ed il guadagno dove sta? Per chi è? E le perdite eventuali chi li assorbe ricevendo questa miseria sia per l'uva che per la commercializzazione della bottiglia? Qualcuno a cui ho fatto questa domanda mi ha detto che si lavora, nell’imbottigliamento per 2-3 centesimi. Ma stiamo scherzando? E se non pagano una partita di 10.000 bottiglie, quanti anni si dovrà lavorare per rifarsi di quella perdita?”
Considerato che la bottiglia, la capsula, il tappo, l'etichetta, il cartone i pallet ,il microfilm, l'Enel per mandare avanti la linea di imbottigliamento e la stabilizzazione e la filtrazione, la Telecom, l'ICI, la Tosap, l'autorizzazione sanitaria, le buste paga,l'Inail e tutto il resto, ogni fine mese bisogna pur pagarli.
E magari l’agricoltore dovrebbe forse anche guadagnarci qualcosa per sopravvivere….
Ma chi avrà ancora il coraggio di andare ancora in campagna? L’anno scorso in Italia sono state presentate 17mila domande per l’abbandono dei vigneti. Ne sono passate circa 9.200.
Per quest’anno – ci dice la Coldiretti - le pratiche in essere sono sostanzialmente, in numero complessivo, uguali all'anno precedente ma, con una grande differenza: quest'anno le pratiche hanno una superficie media più elevata e sono tutte "abbandono totale".
Viene quindi abbandonata l'intera superficie aziendale, con un aumento dell'importo che le ditte riceveranno (per fasce di resa/ha), solitamente tra i € 5000/ € 7000 per ettaro di superficie estirpata.
Chi ha una buona azienda, può anche arrivare ad ottenere un contributo di 50mila euro. Allo stato attuale, non ci sono altri modi per guadagnare una cifra simile. Lo scopo dichiarato è naturalmente quello di ridurre la superficie vitata. E ridurre la produzione. Con meno vino, il prezzo magari potrebbe salire. Ma se il vino non si vende, è difficile che il prezzo cambi.
La concorrenza è forte, soprattutto quella dei Paesi dell’Est da dove il vino viene importato a costi irrisori, vino che può anche essere venduto come “Sicilia”, visto che non esiste la DOC a limitare l’area di imbottigliamento.
Il dato più inquietante è che la quantità di vino invenduto, rimasta nei nostri stabilimenti, è il doppio di quella dichiarata l’anno scorso. Se le aziende hanno i magazzini pieni e le Cantine Sociali offrono 10 euro a quintale, a chi la diamo tutta l’uva, a chi diamo il frutto di un intero anno di lavoro e di spese?
“Siamo proprio arrivati al bicchiere di spumante. Siamo alla fine – ci spiega l’addetto ai lavori – Una volta, con 2-3 ettari di vigna, gli agricoltori si potevano permettere di comprare , con tanti sacrifici, altri terreni e poter mandare i figli a scuola e all'Università”. Ora il bilancio è in perdita. Da diversi anni. Per rimanere in attivo, l’agricoltore dovrebbe ricavare dalla vendita dell’uva almeno 40 euro a quintale. I prezzi, quest’anno, ruotano sui 10. Impossibile sopravvivere più di un anno ancora.
“Ho 10 ettari di vigneto – ci racconta un agricoltore – Per vendemmiare con la vendemmiatrice (il cui prezzo si aggira intorno ai 330/ha a cui sommare il trasporto dell’uva in cantina) ho speso quasi 3500 euro. Prima della vendemmia, ho dovuto pagare la cimatura (500 euro). Arriviamo a 4000 euro. Se davvero la Cantina mi darà 10 euro a quintale, guadagnerò circa 6000 euro. Tolte le spese della sola vendemmia me ne rimangono 2000. E i lavori di tutto il resto dell’anno come li pago? E io come vivo?”
La viticultura in Sicilia è una tradizione. La maggior parte degli imprenditori agricoli di oggi hanno ereditato le proprietà dalla famiglia o le hanno raccolte, a poco a poco, con piccoli acquisti e tanti sacrifici. Su quelle proprietà, molti ci lasciano il cuore. Ma molti oggi parlano di vendere o di abbandonare. Molti, troppi. E la domanda diventa: che ne sarà di una Sicilia senza viti?